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Giurisprudenza

Sui prestiti dei soci alla società
la presunzione di onerosità è legale

Per superarla non basta appellarsi alle prescrizioni dello statuto, secondo le quali i finanziatori appartenenti alla compagine non potevano pretendere alcuna remunerazione sulle somme erogate

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In tema di imposte sui redditi, l'articolo 46 del Tuir prevede, in funzione antielusiva, una presunzione legale di onerosità del prestito concesso dal socio alla società, superabile dal contribuente con prova contraria che, però, non può essere fornita con qualsiasi mezzo, ma soltanto nei modi e nelle forme tassativamente stabilite dalla legge: segnatamente, dimostrando che i bilanci allegati alla dichiarazione dei redditi della società contemplano un versamento fatto a titolo diverso dal mutuo. La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 15761 del 7 giugno 2021, ha affermato la presunzione legale di onerosità dei prestiti concessi dai soci alla società.

Nel caso concreto, la società contribuente aveva impugnato l'avviso di accertamento con il quale erano state recuperate a tassazione, per l’anno di imposta 2003, le ritenute di acconto, non effettuate e non versate, sugli interessi legali sui finanziamenti dei soci.
La ricorrente sosteneva che, in realtà, si trattava di prestiti infruttiferi, secondo le prescrizioni dello statuto della stessa società, da destinare a copertura dei costi di costruzione di un immobile.
La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, con sentenza poi confermata in secondo grado, laddove la Ctr affermava che la presunzione di fruttuosità del mutuo, ex articolo 43 del Tuir (nella versione vigente ratione temporis, oggi articolo 46) è una presunzione semplice, che, nella specie, era stata vinta dalla clausola statutaria, la quale prevedeva che i soci non potessero pretendere alcuna remunerazione sui prestiti accordati alla società.
Tale circostanza, secondo la Commissione tributaria regionale, valeva dunque a superare anche la disposizione (articolo 23, Dpr n. 600/1973), secondo cui i sostituti di imposta sono obbligati a operare la ritenuta di acconto sugli interessi dei capitali, non soltanto quando il relativo importo sia stato corrisposto al mutuante, ma anche nell'ipotesi in cui il diritto agli interessi e la loro corresponsione siano solo presunti.
Infine, i giudici di appello rilevavano che, nel caso in esame, l'esistenza di prestiti da parte dei soci era comunque coerente con la fase di investimenti iniziali per la realizzazione del programma societario.

L'Agenzia delle entrate proponeva ricorso per cassazione, deducendo la violazione degli articoli 42, comma 2 (attuale articolo 45, comma 2) e 43 (attuale articolo 46) del Tuir, in combinato disposto con gli articoli 2727 e 2728 del codice civile.
In particolare, l’amministrazione finanziaria censurava l'errore di diritto della sentenza impugnata per avere questa affermato che la presunzione di fruttuosità dei prestiti fosse una presunzione semplice, senza invece considerare che, secondo la normativa tributaria, si tratta di una presunzione legale, iuris tantum, suscettibile peraltro di essere vinta soltanto nei modi e secondo le forme stabiliti dalla legge, ossia tramite la produzione dei bilanci dell'ente collettivo (allegati alla dichiarazione dei redditi), da cui risulti che il versamento da parte del socio è stato fatto ad altro titolo.
Con altro motivo di impugnazione, poi, l’Agenzia deduceva la violazione degli articoli 43 (attuale 46) del Tuir e 1815 cc, per avere la sentenza impugnata erroneamente affermato la rilevanza dell'esistenza di una clausola statutaria, che, come visto, prevedeva che i soci non avrebbero potuto pretendere alcuna remunerazione sui prestiti accordati alla società, senza però considerare che tale circostanza era irrilevante rispetto alla presunzione legale di fruttuosità dei versamenti dei soci, superabile solo con prova contraria (vincolata) consistente nella eventuale esistenza di una deliberazione sociale, anteriore al finanziamento, da cui risultasse l'infruttuosità del finanziamento operato dagli stessi soci.
E, infine, con una terza censura, l’Agenzia deduceva la violazione dell'articolo 43 (attuale 46) del Tuir, in combinato disposto con l'articolo 26 del Dpr n. 600/1973, laddove, una volta accertata la fruttuosità del finanziamento, in virtù della citata presunzione legale, la ritenuta sugli interessi iscritti in bilancio va operata dalla società "in automatico", indipendentemente cioè dalla effettiva corresponsione ai soci.

Secondo la suprema Corte tutte e tre le censure sono fondate.
I giudici di legittimità evidenziano che è principio di diritto consolidato (enunciato, tra le altre, da Cassazione n. 3398/2020) che “in tema di imposte sui redditi, l'art. 43 del d.P.R. n. 917 del 1986 (nel testo applicabile "ratione temporis") prevede, in funzione antielusiva, una presunzione legale di onerosità del prestito concesso dal socio alla società, superabile dal contribuente con prova contraria che, però, non può essere fornita con qualsiasi mezzo, ma soltanto nei modi e nelle forme tassativamente stabilite dalla legge: segnatamente, dimostrando che i bilanci allegati alla dichiarazione dei redditi della società contemplano un versamento fatto a titolo diverso dal mutuo”.
La Commissione tributaria regionale, pertanto, non si era attenuta a tale regula iuris, avendo negato la fondatezza della pretesa impositiva sulla base della erronea considerazione, da un lato, che la presunzione in esame fosse una presunzione semplice (superata dalla peculiare clausola statutaria, che escludeva la fruttuosità dei finanziamenti dei soci) e, dall'altro, che tale circostanza di fatto facesse venire meno l'obbligo di operare la ritenuta di acconto sugli interessi.

Tanto premesso, in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali, giova anche evidenziare quanto segue.
Più volte la Corte di cassazione ha affermato che i versamenti dei soci alla società si presumono onerosi.
L'onerosità del versamento è dunque presunta, conseguendone che, in caso di mancato superamento della presunzione legale, gli interessi attivi, al pari di quelli prodotti da qualsiasi finanziamento a terzi, concorrono a formare il reddito, come espressamente previsto dall'articolo 45 del Tuir (Dpr. n. 917/1986) e confermato dall'articolo 95 dello stesso decreto, nella parte in cui considera il reddito complessivo delle società quale reddito d'impresa “da qualsiasi fonte provenga” (cfr Cassazione, nn. 12251/2010 e 17839/2016).
D'altronde, l'obbligo di formalizzazione degli interessi attivi o passivi nelle scritture contabili, affermato dalla Cassazione anche a proposito dei principi di trasparenza prescritti dall'articolo 2423 cc (cfr Cassazione, sentenza n. 21157/2008), costituisce un’ulteriore conferma del rigore formale che si impone quando l'autonomia negoziale dei privati si interseca con gli interessi dell’amministrazione finanziaria, rispetto alla quale, quindi, la presunzione di onerosità di un modello negoziale come il mutuo può essere certamente superata dalla volontà delle parti, sempre che, però, queste adempiano all'onere di fornire una prova rigorosa della pattuizione di gratuità del finanziamento.

In conclusione, un finanziamento infruttifero dovrà sempre essere confermato dalla relativa delibera assembleare (cfr Cassazione nn. 10228/2018 e 25578/2017).
L'effettività di un finanziamento infruttifero non può infatti desumersi, ad esempio, dalla capacità di spesa e dalla disponibilità di liquidità in capo al socio, laddove peraltro i finanziamenti infruttiferi dei soci, laddove ingiustificati, possono anche essere considerati ricavi in nero (cfr. Cassazione n. 14066/2017).
La disponibilità economica dei soci, di per sé, non ha del resto i requisiti di gravità, precisione e concordanza e comunque violerebbe il principio di ripartizione dell'onere probatorio, che, per le componenti negative del reddito, grava sulla parte che le invoca, e quindi sul contribuente.

Per smentire la presunzione di legge in esame occorre, pertanto, addurre specifici elementi, senza che neppure possa fare differenza che i finanziamenti siano fatti dal socio persona fisica o dal socio imprenditore, non facendo la norma cenno alcuno a una pretesa natura di persona solo 'fisica" dei soci destinatari della presunzione ed essendo tale limitazione, in carenza di qualsiasi concreto elemento di differenziazione, contraria a una interpretazione normativa coerente con i precetti dettati dagli articoli 3 e 53 della Costituzione, in quanto, finirebbe per trattare diversamente situazioni economiche identiche (cfr  Cassazione, n. 17839/2016).

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