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Giurisprudenza

Spesa incongrua e antieconomica:
l’inerenza deve essere dimostrata

Si tratta di un indice sintomatico della carenza di legami con l’attività d’impresa che, se rilevato, autorizza l’amministrazione finanziaria a dubitare della presunta relazione

spiegazione

La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 18391 del 09 luglio 2019, ha affermato rilevanti considerazioni in tema di inerenza del costo, soprattutto sotto il profilo dell’onere della prova e del rapporto con il concetto di antieconomicità.
Nel caso in esame, la società contribuente e i soci proponevano ricorso per cassazione nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna, che aveva parzialmente accolto l'appello dell'Agenzia delle entrate contro la decisione della Ctp di Bologna, con cui era stato accolto il ricorso proposto dai contribuenti.
 
I ricorrenti lamentavano violazione di norme di diritto (articolo 109, Dpr 917/1986) per avere la Ctr parzialmente accolto le doglianze dell'ufficio, e segnatamente quella relativa alla contestata inerenza del costo di provvigioni erogate dalla società, avendo i giudici d'appello ritenuto “subordinata la deducibilità di un costo al collegamento del medesimo con il ricavo che ne ‘deve’ conseguire in termini di necessità”.
 
Secondo la suprema Corte la censura era infondata.
Evidenziano infatti i giudici di legittimità che, come anche già chiarito con l'ordinanza n. 18904/2018 della stessa Cassazione, il principio di inerenza esprime una correlazione tra costi e attività d'impresa in concreto esercitata e si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo, pur non essendo però il giudizio quantitativo o di congruità del tutto irrilevante, collocandosi piuttosto su un diverso piano logico e strutturale.
La questione, rileva la Corte, si intreccia del resto con il profilo dell'onere della prova dell'inerenza del costo che, secondo la costante giurisprudenza, incombe sul contribuente, mentre spetta all'amministrazione la prova della maggiore pretesa tributaria (cfr Cassazione nn. 10269/2017, 21184/2014 e 13300/2017).
 
L'inerenza è dunque un giudizio e la prova deve investire i fatti costitutivi del costo, sicché, per quanto riguarda il contribuente, il suo onere è, per così dire, “originario”, poiché si articola ancor prima dell'esigenza di contrastare la maggiore pretesa erariale, “essendo egli tenuto a provare (e documentare) l'imponibile maturato e, dunque, l'esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, ovvero che esso è in realtà un atto d'impresa perché in correlazione con l'attività d'impresa”.
Nella sua esplicazione effettiva, sottolinea ancora la Cassazione, tale onere si atteggia del resto diversamente, a seconda dello specifico oggetto della componente negativa, in quanto, in molti casi, le caratteristiche documentate del costo o dell'operazione sono tali da far ritenere evidente la correlazione tra la spesa e l'attività d'impresa.
In tal senso si spiega, quindi, la giurisprudenza che distingue tra beni “normalmente necessari e strumentali” e beni “non necessari e strumentali”, concludendo nel ritenere a carico del contribuente l'onere della prova dell'inerenza solo in questa seconda evenienza (cfr Cassazione n. 6548/2012), laddove, in realtà, nella prima ipotesi si assiste, più che una modifica dei criteri di ripartizione, a una semplificazione dello stesso onere.
Quando l'operazione realizzata risulti invece complessa, o anche atipica od originale rispetto alle usuali modalità di mercato, tale onere si atteggia in termini altrettanto complessi e “la qualificazione dell'operazione come atto d'impresa (che, per scelta o ventura, ha un coefficiente negativo) deve tradursi in elementi oggettivi suscettibili di apprezzamento in funzione del giudizio di inerenza”.
E l'amministrazione finanziaria, ove ritenga gli elementi dedotti dal contribuente mancanti, insufficienti o inadeguati, ovvero riscontri ulteriori circostanze di fatto, tali da inficiare la validità e/o la rilevanza di quelli allegati a fondamento dell'imputazione del costo alla determinazione del reddito, può quindi legittimamente contestare la valutazione di inerenza.
 
In tale contesto, l'antieconomicità del comportamento imprenditoriale richiede quindi, da parte dell'amministrazione, la dimostrazione dell'inattendibilità della condotta, anche considerati i diversi indici che presiedono la stima della redditività dell'impresa (cfr Cassazione nn. 13468/2015 e 21869/2016), a fronte della quale spetta poi al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate (cfr Cassazione n. 25257/2017).
Pertanto, in tema di imposte dirette, l'amministrazione finanziaria, nel negare l'inerenza di un costo, può anche contestare l'incongruità e l'antieconomicità della spesa, che assumono appunto rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza, pur non identificandosi in essa.
 
Tornando al caso in giudizio, la Corte di cassazione evidenzia quindi come il tenore della decisione dei giudici regionali mostrava la piena consapevolezza del valore da attribuire al concetto di inerenza, laddove, con logica inappuntabile, avvertiva che la “semplice esibizione delle fatture rilasciate dai genitori soci fondatori non accompagnate dalla esibizione della documentazione probante i rapporti intercorrenti tra gli stessi e la società quale per esempio un contratto di collaborazione coordinata e continuativa o un contratto di subagente e dalla documentazione probante dei contratti di assicurazione da essi procurati o dell'attività a qualsiasi titolo prestata che giustifichino i compensi corrisposti in misura fissa mensile, non soddisfa il concetto dì inerenza e deducibilità dei costi stabilita dall'art. 109 DPR del TUIR che al comma 5 statuisce che sono deducibili le spese se e nella misura in cui si riferiscono a ricavi o ad altri proventi che concorrono a formare il reddito”.
 
Tanto premesso, in relazione allo specifico caso processuale, in termini più generali, giova anche osservare quanto segue.
Ove sia contestata dall'amministrazione finanziaria la congruità del costo, il contribuente è tenuto a dimostrarne la coerenza economica, essendo altrimenti legittima la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all'oggetto dell'impresa (cfr Cassazione n. 28617/2018).
Né è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto, da cui ricavarne, oltre che l'importo, la ragione e la coerenza economica, laddove comunque le fatture non possono, ex se, dimostrare l'esistenza, inerenza e la proporzionalità delle somme impegnate.
La nozione fiscale di inerenza deve, in sostanza, essere riallineata al fenomeno economico peculiare all'esercizio dell'attività d'impresa.
L'inerenza costituisce un requisito fondamentale per la determinazione del reddito d'impresa e i costi sono inerenti, in quanto collegati all'attività d'impresa produttiva del reddito soggetto a tassazione.
L’articolo 109, comma 5, del Tuir, disciplina, del resto, un profilo ulteriore e successivo - le regole di deducibilità dei costi - rispetto all'inerenza, che è presupposta (i costi per essere deducibili debbono anche, e necessariamente, essere inerenti), ma non definita dalla norma.
E, anche in tema di Iva, è possibile individuare indicazioni di analoga portata, laddove l'articolo. 19, primo comma, Dpr 633/1972 prevede che il soggetto passivo ha diritto di detrarre “l'imposta assolta o dovuta … o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni e ai servizi importati o acquistati nell'esercizio dell'impresa, arte o professione”.
La nozione di inerenza, in sostanza, non è definita, ma “postulata” in relazione ai costi effettuati nell'esercizio dell'attività d'impresa.
E la sua nozione trae fondamento dallo stesso concetto economico-aziendalistico di reddito, che è quello al netto dei costi collegati all'esercizio dell'impresa.
 
Ne deriva, quindi, che, come detto, l'inerenza integra, in realtà, un giudizio sulla riferibilità del costo all'attività d'impresa, giudizio che, come tale, ha natura qualitativa.
In questa prospettiva appare però suscettibile di assumere rilievo anche un giudizio sulla congruità (e antieconomicità) della spesa, laddove l'oggetto del giudizio di congruità indica un giudizio sulla proporzionalità tra il quantum corrisposto e il vantaggio conseguito.
Pertanto è configurabile un nesso tra due giudizi su un piano strettamente probatorio: la dimostrata sproporzione assume valore sintomatico, di indice rivelatore, in ordine al fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è diverso ed estraneo all'attività d'impresa, ossia che l'atto, in realtà, non è correlato alla produzione ma assolve ad altre finalità e, quindi, il requisito dell'inerenza è inesistente. E, in tema di Iva, tale prova è “aggravata”, dato che l'inerenza del costo non può essere esclusa in base a un giudizio di congruità della spesa, salvo che l'amministrazione finanziaria ne dimostri la “macroscopica” antieconomicità ed essa rilevi quale indizio dell'assenza di connessione tra costo e l'attività d'impresa (cfr Cassazione, sentenza n. 18904/2018).
 
Come ben evidenziato dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 14579/2018, ai fini della deducibilità dei costi, non è peraltro sufficiente che l'attività svolta rientri tra quelle previste nello statuto sociale (circostanza che ha un valore meramente indiziario), dovendo il contribuente dimostrare che l'operazione da cui deriva la spesa sia inserita in una specifica attività imprenditoriale e destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore.
E dunque, il criterio del perseguimento del vantaggio economico torna comunque ad assumere indirettamente rilevanza, come la stessa sentenza in commento evidenzia, affermando che “l'antieconomicità e l'incongruità della spesa sono indici rivelativi della mancanza di inerenza, pur non identificandosi con essa”.
Ai fini delle imposte sui redditi, la valutazione di antieconomicità, ossia della evidente incongruità dell'operazione, legittima il potere dell'amministrazione finanziaria di accertamento, laddove l’accertata sproporzione del costo assume valore sintomatico del fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è estraneo all'attività d'impresa, ossia che l'atto non è correlato alla produzione, ma assolve a diverse finalità (cfr Cassazione, ordinanza n. 16010/2019).
Tutta la questione, in pratica, si sposta sul piano probatorio, laddove l'antieconomicità dell'operazione non comporta automaticamente l'indeducibilità dei costi, ma semplicemente la necessità di una prova più “convincente” in ordine alla deducibilità del componente negativo.
Sarà allora compito del contribuente dimostrare l’inconsistenza dell'impianto logico e giuridico dell'Erario e questo non come conseguenza di un’inversione dell’onere della prova, ma come adempimento dell’onere della prova di ciascuna delle parti in processo (ex articolo 2697 cc).
All’amministrazione finanziaria non importa del resto, in questi casi, criticare le capacità imprenditoriali degli amministratori della società, ma solo evidenziare come, nell’ambito dell’id quod plerumque accidit, tale antieconomicità e irragionevolezza imprenditoriale possa essere “sintomo” di evasione.

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