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Giurisprudenza

Solo l’inerzia del curatore
giustifica il ricorso del fallito

La “noncuranza” va intesa come un vero e proprio disinteresse alla prosecuzione della lite che non può essere accostato alla consapevole decisione di non continuare la controversia

Il ricorso presentato dal contribuente contro la pronuncia sfavorevole resa nei confronti della curatela fallimentare può essere considerato ammissibile soltanto nell’ipotesi in cui gli organi fallimentari siano rimasti totalmente inerti. In particolare, l’inerzia è configurabile solo nel caso in cui si sia manifestato un completo disinteresse al gravame e non quando si sia presa scientemente la decisione di non proseguire il giudizio.
Sono questi gli interessanti principi che si ricavano dalla pronuncia 21602 della Cassazione, del 4 settembre 2018.
 
Il giudizio di merito
L’Agenzia delle entrate, in seguito a una verifica fiscale condotta dalla Guardia di finanza, notificava un avviso di accertamento, per l’anno di imposta 2004, nei confronti di una società a responsabilità limitata dichiarata fallita.
La compagine, attraverso la curatela fallimentare, proponeva ricorso, ma tanto le Commissioni tributarie provinciale e regionale quanto la Cassazione decidevano in maniera sfavorevole alla parte.
Successivamente, il rappresentante legale della Srl, sia per proprio conto sia in qualità di rappresentante della società, presentava ricorso per la revocazione della sentenza pronunciata dalla suprema Corte, invocando la violazione dell’articolo 395 cpc, primo comma, nn. 4 (sentenza effetto di errore di fatto risultante da documenti e atti del processo) e 5 (conflitto con precedente pronuncia passata in giudicato).
 
Le riflessioni della Cassazione
La suprema Corte dichiarava inammissibili i ricorsi presentanti dal contribuente sia in proprio sia nella sua qualità di rappresentante legale della società e lo condannava alla refusione delle spese del giudizio di legittimità.
 
In relazione al ricorso presentato in proprio, la declaratoria di inammissibilità era resa per una ragione di origine “processuale”, consistente nella acclarata circostanza secondo cui il contribuente non fosse stato parte del processo nei precedenti gradi dei giudizi di merito.
Incidenter tantum, la Cassazione ha precisato che sarebbe, in ogni caso, mancato un “…interesse personale diretto…” all’impugnazione da parte del contribuente. Ciò in quanto, in seguito alla attuazione della riforma societaria, dal vecchio “regime” che prevedeva la responsabilità personale del rappresentante legale per le sanzioni amministrative tributarie comminate alla società di capitali, si è passati alla regola della riferibilità esclusiva alle persone giuridiche delle predette sanzioni (articolo 7, comma 1, Dl 269/2003, cfr Cassazione n. 9094/2017).
 
Per quanto concerneva il ricorso presentato in qualità di rappresentante legale, i giudici di legittimità hanno ricordato che “…è inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal fallito avverso la sentenza sfavorevole al fallimento, non impugnata dal curatore, quando il giudice delegato abbia autorizzato il curatore a non impugnare e a non proseguire il giudizio in sede di legittimità (Cass. n. 11117 del 2013). La legittimazione processuale del fallito all’impugnazione e, dunque, della società che ricorre per mezzo del suo rappresentante legale, sussisterebbe in via eccezionale nel solo caso in cui la curatela fallimentare si disinteressasse totalmente del gravame. Non sussisterebbe, invece, nel diverso caso in cui gli organi fallimentari valutino negativamente la possibilità di impugnare. Nel caso di specie, i giudici di legittimità hanno constato l’esistenza di un apposito provvedimento con cui il curatore fallimentare comunicava alla parte le determinazioni del giudice delegato, consistenti nell’autorizzazione nei confronti della curatela a non porre in essere alcuna attività in ordine alla revocazione della sentenza.
 
Ulteriori osservazioni
L’articolo 46 della legge fallimentare prevede che sia il curatore a stare in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative ai rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento, salvo casi particolari espressamente previsti (ad esempio, i giudizi dai quali possa derivare una imputazione per bancarotta). In sostanza, la regola generale vuole che il fallito perda la sua legittimazione processuale in favore della curatela fallimentare. Questo perché, la procedura fallimentare priva il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei beni posseduti sin dalla data della dichiarazione di fallimento.
 
La giurisprudenza di legittimità prevalente (cfr Cassazione nn. 13814/2016, 13991/2017, 9248/2015, 13814/2016 e 8132/2018) ha stabilito che il fallito conserva, in via eccezionale, la legittimazione processuale nel caso di inerzia degli organi fallimentari. A tal proposito, è stato chiarito che il concetto di inerzia debba essere inteso come un vero e proprio disinteresse da parte degli organi fallimentari alla prosecuzione della controversia. La consapevole decisione di non proseguire la lite, circostanza concretamente verificatasi nella pronuncia in commento, non può essere, invece, accostata all’inerzia. In sostanza, l’inerzia non va intesa nella sua accezione processuale, bensì va rilevata in relazione alla carenza di una qualsivoglia valutazione circa la possibilità di proseguire il processo.
 
Resta inteso che, se la procedura fallimentare viene chiusa durante la pendenza del processo, il fallito tornato in bonis riacquisisce la piena disponibilità del proprio patrimonio nonché la legittimazione ad agire in sede processuale. Il fallito, dunque, avrà la possibilità di subentrare al curatore fallimentare nel giudizio in corso “…nel punto e nello stato in cui esso si trova, accettando la causa così com'è e senza possibilità di invalidare - se così può dirsi - quanto è stato di buon diritto compiuto dal curatore nel momento in cui questi lo rappresentava” (Cassazione, n. 11854/2015).
Peraltro, tale possibilità non è prevista nell’ambito del giudizio di cassazione, in quanto esso è caratterizzato dall’impulso d’ufficio per cui, in virtù dell’applicazione dell’articolo 372 cpc, non è possibile attestare la sopravvenuta chiusura del fallimento mediante la produzione di nuovi documenti (cfr Cassazione nn. 9147, 11117 e 21729, tutte del 2013).
Diversamente dai gradi di merito, in cui trovano applicazione le norme di cui agli articoli 299 e 300 cpc sull’interruzione del processo, in Cassazione la chiusura del fallimento non determina automaticamente il subentrare del fallito, tornato in bonis, nel rapporto processuale.
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