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Giurisprudenza

Riqualificazione contratti. Un altro punto per il Fisco

Confermata, per l’Amministrazione, la possibilità di accertare la natura simulatoria del negozio

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Il contratto simulato tra società, pur valido sul piano civilistico, non preclude all’Amministrazione finanziaria, che si faccia carico di motivare adeguatamente il rilievo, la possibilità di procedere alla sua riqualificazione, assoggettandolo al trattamento fiscale corretto.
E’ questo l’importante principio affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 21170 del 6 agosto 2008.

Il recupero si fondava sulla fittizietà dell’operazione, rilevata dall’ufficio sulla scorta di un pvc della Guardia di finanza, con il quale era stata contestata la fittizietà di un’operazione di sale and leaseback. La società, infatti, aveva ceduto a una sua collegata macchine per movimento terra, per poi riacquisirle, poco tempo dopo, a un valore di circa venti volte superiore. Successivamente, le macchine erano state nuovamente cedute (per il corrispettivo “liftato” dalla collegata) a una società di leasing, riacquistandone contestualmente la disponibilità con la stipulazione di un contratto di sale and leaseback.

In sintesi, per la Suprema corte, il contratto di leaseback era stato uno schermo formale concordato per celare una operazione di finanziamento e, quindi, una pura e semplice evasione d’imposta, poiché, all’epoca dei fatti, i canoni di leasing erano interamente deducibili, al contrario degli interessi passivi corrisposti sulle somme prese a prestito, deducibili nei limiti e alle condizioni di cui all’articolo 58 del Dpr n. 597/1973 (all’epoca vigente).

Un simile orientamento, circa il potere di riqualificazione dei contratti, era stato già espresso dai giudici di legittimità.
Con la sentenza n. 12353 del 9 marzo 2005, infatti, era stato affermato che l’Amministrazione finanziaria ha il potere di accertare la sussistenza dell’eventuale simulazione di un contratto in grado di pregiudicare il diritto dell’Amministrazione stessa alla percezione del giusto tributo, senza la necessità di un preventivo giudizio di simulazione, spettando poi al giudice tributario, in caso di contestazione, il potere di controllare incidenter tantum, attraverso l’interpretazione del negozio ritenuto simulato l’esattezza di tale accertamento, al fine di verificare la legittimità della pretesa tributaria.

Per quanto attiene l’oggetto della controversia, giova sottolineare che si incontrano non poche difficoltà nell’individuazione degli elementi che costituiscono il “discrimine” tra i contratti di finanziamento in senso stretto e i contratti di sale and leaseback.

Brevi cenni sul contratto di lease back
Con l’espressione sale and leaseback si suole indicare lo schema negoziale nel quale si ha identità giuridica tra cedente e utilizzatore del bene oggetto del leasing.
Lo schema consiste nella cessione a titolo oneroso di un bene, di regola un immobile o comunque un cespite durevole nel tempo, da parte del proprietario a una impresa di leasing, con la contestuale concessione in locazione finanziaria da parte di quest’ultima dello stesso bene all’alienante (che da possessore diviene detentore), il quale lo potrà riscattare al termine del contratto.

Funzione dell’operazione è ottenere la disponibilità di risorse finanziarie da parte di imprese prive di liquidità per il tramite del disinvestimento di un cespite che, comunque, continua a essere utilizzato.

Il problema sorge quando nel contratto di leaseback si rinvengono anomalie (circolare Dre Lombardia n. 20/42441 del 24 maggio 2000), quale patti commissori (è nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore), di cui all’articolo 2744 del Codice civile, oppure, come nella fattispecie considerata, elementi che conducono inequivocabilmente a una riqualificazione del contratto stesso, quale finanziamento in strictu sensu.
Il contratto in oggetto, infatti, non solo era stato stipulato per un corrispettivo tutto da verificare (la società collegata aveva eseguito “ingenti” lavori sui cespiti in soli venti giorni, facendo lievitare il valore da 70 milioni a 1,275 miliardi di lire), ma era stato riscattato anticipatamente per poi essere subito rinnovato.

Tutte circostanze che, unite alle risultanze del giudizio penale a carico degli amministratori della società di leasing, hanno evidenziato, secondo la Cassazione, il carattere simulatorio del contratto di leaseback.


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