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Giurisprudenza

Occorrono i fatti per provare
che il rimborso è irrifiutabile

Irrilevante che il Fisco non abbia esercitato i poteri di controllo sull’esistenza del credito esposto in dichiarazione e sull’esistenza delle operazioni imponibili da cui esso è derivato

Nelle controversie concernenti il rimborso dell’Iva, grava sul contribuente – che riveste nel processo la qualità di attore in senso sostanziale – l’onere di allegare e provare i fatti a fondamento della richiesta, non essendo sufficiente a tal fine la sola indicazione del credito nella dichiarazione.
Le argomentazioni con cui l’ufficio nega la sussistenza di detti fatti o la qualificazione a essi attribuita dal contribuente costituiscono “mere difese”, come tali non soggette alle preclusioni processuali stabilite dall’articolo 57 del Dlgs 546/1992, salva la formazione del giudicato interno.
Sono questi i principi affermati dalla Corte di cassazione nell’ordinanza 23031 del 2 ottobre 2017.
 
La vicenda processuale
Il curatore fallimentare di una società presentava all’Agenzia delle entrate, nel maggio 2012, un’istanza di rimborso del credito Iva per l’anno 2004, che veniva negato per tardività della domanda; in particolare, in assenza della prevista presentazione del modello VR all’allora concessionario della riscossione, l’ufficio riteneva la richiesta soggetta al termine decadenziale previsto dall’articolo 21 del Dlgs 546/1992, secondo cui “la domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento, ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”.
 
La curatela presentava ricorso eccependo l’inapplicabilità del termine biennale essendo il rimborso dei crediti risultanti dalla dichiarazione soggetto solo al termine di prescrizione decennale, ai sensi dell’articolo 2946 cc, e che la mancata compilazione del modello VR non poteva comportare il venir meno della sussistenza del credito.
La Commissione tributaria provinciale di Bari (sentenza 1553/7/14 del23 giugno 2014) e, in seguito, la Ctr (sentenza 1191/11/2016 del 12 maggio 2016), accoglievano le doglianze statuendo da un lato l’applicabilità del termine di prescrizione decennale, dall’altro la spettanza del credito Iva.
 
Invero, a parere del giudice di secondo grado, la mera esposizione in dichiarazione da parte del curatore fallimentare di un credito d’imposta derivante da operazioni imponibili precedenti la dichiarazione di fallimento doveva considerarsi quale presupposto adeguato e sufficiente a fondare la pretesa di rimborso avanzata: la richiesta “sarebbe stata illegittima soltanto nel caso di inesistenza delle dette operazioni, accertata dall'Agenzia delle Entrate. L’Agenzia delle Entrate ha omesso di esercitare i poteri di controllo sull’esistenza del credito d'imposta esposto in dichiarazione e sull’esistenza delle operazioni imponibili dalle quali il predetto credito è derivato”. Di conseguenza, il credito d’imposta dichiarato dalla curatela del fallimento doveva essere rimborsato.
 
Tali statuizioni sono state fatte oggetto di impugnazione dall’amministrazione finanziaria avanti la Corte di cassazione, con particolare riferimento alla violazione delle disposizioni che regolano il riparto dell’onere della prova nel giudizio tributario.
 
La pronuncia: onere della prova e preclusioni processuali nelle controversie sui rimborsi
Nell’ordinanza in commento, la Corte di cassazione effettua una puntuale disamina delle disposizioni che regolano l’onere probatorio nelle controversie tributarie concernenti i rimborsi, nonché della distinzione tra eccezioni e “mere difese”, ai fini della maturazione di preclusioni processuali.
In primo luogo, i giudici di legittimità ribadiscono che in tema di contenzioso tributario il contribuente che impugni il rifiuto espresso o tacito dell’istanza di rimborso riveste la qualità di attore in senso sostanziale “con la duplice conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare e provare i fatti a cui la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato nella domanda”.
Il principio affermato discende dalla previsione generale contenuta nell’articolo 2697 del codice civile, applicabile anche in materia tributaria (cfr, per tutte, Cassazione, pronuncia 8439/2004), secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.
 
In conclusione, è il contribuente che chiede il rimborso dell’Iva a dover provare la sussistenza dei relativi presupposti.
Al riguardo è opportuno segnalare l’orientamento espresso dalla Corte suprema in numerose pronunce secondo cui tale onere probatorio non può essere adempiuto “con la mera esposizione della pretesa restitutoria nella dichiarazione presentata … giacché il credito fiscale non nasce da questa, bensì dal meccanismo fisiologico di applicazione del tributo previsto dalla legge” (cfr Cassazione, sentenze 8998/2014, 23042/2015 e 18427/2012.
 
L’ordinanza in commento si sofferma poi su aspetti di carattere processuale, affermando che “le argomentazioni con cui l’Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o la qualificazione ad essi attribuita dal contribuente, costituiscono mere difese, come tali non soggette ad alcuna preclusione processuale, salva la formazione del giudicato interno[1], in ossequio alla disciplina contenuta nell’articolo 57 del Dlgs 546/1992.
A parere della Corte suprema, invero, a essere precluse nel grado di appello sono “esclusivamente le nuove eccezioni in senso tecnico, dalle quali deriva un mutamento degli elementi materiali del fatto costitutivo della pretesa ed il conseguente ampliamento del tema della decisione”.
 
Con riferimento al caso di specie, i giudici di legittimità hanno ritenuto censurabile la sentenza del giudice di secondo grado di Bari che avrebbe dovuto verificare in concreto e nel merito l’assolvimento dell’onere probatorio da parte della curatela fallimentare con specifico riguardo alle produzioni documentali richieste dalla normativa sui rimborsi Iva, “non potendosi limitare al rilievo della compilazione del rigo VX4 della dichiarazione correlativa”.
Non incide su tale conclusione, a parere della Corte, l’eccepita circostanza secondo cui l’Agenzia delle entrate ha omesso di esercitare i poteri di controllo sull’esistenza del credito d’imposta esposto in dichiarazione e sull’esistenza delle operazioni imponibili delle quali il predetto credito è derivato. Ciò, varrebbe, infatti, a invertire “l’onere probatorio così come determinato dalla qualità di “attore sostanziale” della Curatela fallimentare”.
 
[1] Si definiscono, in genere, mere difese quelle fondate sulla deduzione di nuove argomentazioni giuridiche o sulla richiesta di applicazione di norme diverse da quelle invocate in giudizio. Secondo la Corte suprema sono «mere difese» quelle “dirette a sollecitare il rilievo d’ufficio da parte del giudice, della inesistenza dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio (Cassazione,  15546/2004, con riferimento alla posizione del contribuente), ovvero, specularmente, in quanto volte alla mera contestazione, da parte dell’Amministrazione, delle censure mosse dal contribuente all’atto impugnato con il ricorso ed alle quali rimane circoscritta la indagine rimessa al giudice” (sentenza 13331/2016). Cfr Cassazione, sezione 5, sentenza 15026/2014 e ordinanza 23587/2016.
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