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Giurisprudenza

L’indebita compensazione di crediti
conta quanto il reato di truffa

E’ così, nonostante il fatto che il crimine sia stato messo in atto in un periodo antecedente la sua introduzione nel nostro ordinamento sanzionatorio penale

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Con la sentenza 7662 del 24 febbraio, la Cassazione ha puntualizzato che l’indebita compensazione effettuata prima del 4 luglio 2006 (data di entrata in vigore dell’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000) integra la fattispecie delittuosa della truffa ai danni dello Stato, stante la sua assimilazione alla condotta criminosa ricompresa nell’articolo 316-ter del codice penale, che punisce “…chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici…”.
Nella pronuncia, la Corte suprema ha ricordato anche il rapporto di specialità esistente tra le fattispecie penali tributarie (nello specifico, dell’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000) rispetto a quelle generali contenute nel codice penale (con particolare riferimento al reato di truffa di cui all’articolo 640, comma 2, n. 1), con l’effetto che la prima condotta è riconducibile nella seconda, nel rispetto delle soglie di punibilità stabilite dallo stesso articolo 10-quater.
 
I fatti
Nel corso di una vasta indagine volta a perseguire truffe Iva perpetrate nell’ambito dell’Unione europea, la Guardia di finanza contestava a una società, riconducibile a un più ampio gruppo sociale, di aver indicato nelle dichiarazioni e nei modelli F24 relativi agli anni 2003 e 2004 e ai primi due trimestri del 2005 crediti Iva, ritenuti insussistenti, ai fini della compensazione delle imposte e delle ritenute di acconto.
Pertanto, nei confronti dell’amministratore di fatto della società era stato ipotizzato il reato di cui all’articolo 640, comma 2, n. 1, del codice penale (truffa ai danni dello Stato o di un altro ente pubblico), perché con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in tempi diversi, realizzava ingegnosi raggiri, inducendo in errore l’Amministrazione finanziaria.
In particolare, secondo l’accusa, l’imputato aveva utilizzato, al fine di pagare le imposte e i contributi per circa un milione di euro, modelli di pagamento F24 in cui veniva indicata la medesima somma a credito Iva, effettuando, in tal modo, la compensazione dell’intero importo dovuto. Il credito Iva, tuttavia, era stato creato ad arte, al solo fine di azzerare il debito verso l’Erario, ma non risultava dalle relative dichiarazioni.

Il Tribunale competente, nel febbraio 2010, condannava l’imputato alla pena di giustizia, mentre, nel giudizio di secondo grado, la Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, decidendo sull’impugnazione dell’imputato, riqualificava il fatto a lui ascritto nel reato di cui all’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000 (indebita compensazione), riducendone, per l’effetto, la pena.

Nel successivo ricorso in Cassazione, l’imputato deduce, tra le altre, l’erroneità della sentenza di appello per violazione dell’articolo 640 cp, in quanto il fatto contestato, all’epoca della sua commissione, non era previsto dalla legge come reato non essendo la mera compensazione d’imposta configurabile quale truffa. Secondo la sua difesa, i giudici di appello non avrebbero considerato che il reato di truffa, nel prevedere “artifizi o raggiri”, richiede un quid pluris rispetto alla mera dichiarazione non veritiera.
Oltretutto, il reato previsto dall’articolo 10-quater, continua ancora la difesa, presuppone il superamento della soglia di punibilità di 50mila euro per ciascun anno d’imposta che, nella specie, non si è verificato (la documentazione prodotta aveva accertato una compensazione complessiva di circa 25mila euro).

La decisione
La Cassazione accoglie il ricorso - cassando la sentenza con rinvio - limitatamente a quest’ultimo motivo, nella considerazione che la fattispecie delittuosa prevista dall’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000 si realizza nel momento in cui viene operata la compensazione per un importo superiore alla soglia di punibilità (pari a 50mila euro) con riferimento al singolo periodo d’imposta.
Tale soglia di punibilità, prosegue la Cassazione “…deriva dal rinvio operato dall’art. 10-quater, ai ‘limiti’ previsti dal precedente art. 10 bis. Pertanto, nel caso in cui, nel corso di uno stesso periodo d’imposta, siano state effettuate compensazioni con crediti non spettanti o inesistenti per importi inferiori a tale soglia, la figura illecita in esame non può ritenersi integrata in quanto il reato si configura solo nel momento in cui si procede, per lo stesso periodo d’imposta, alla compensazione di un ulteriore importo di crediti non spettanti o inesistenti che, sommato agli importi già utilizzati in compensazione, sia superiore alla soglia di rilevanza di cinquantamila Euro”.

Tuttavia, la Cassazione affronta la questione relativa all’applicabilità, al caso in esame, dell’articolo 10-quater.
Al riguardo, la Corte di legittimità parte dall’affermazione del ricorrente secondo cui la condotta contestata non ha in nessun caso rilevanza penale, riferendosi a periodi temporalmente antecedenti all’introduzione del reato di cui all’articolo 10-quater (4 luglio 2006).
Su tale questione ricorda che, sebbene il reato di indebita compensazione di cui all’articolo 10-quater sia stato introdotto dalla legge 248/2006, il Tribunale ha, tuttavia, rilevato che la condotta contestata, in quanto ingannatoria e non meramente elusiva, nel periodo antecedente all’introduzione del reato in trattazione, era comunque riconducibile alla truffa.
Inoltre, alla contestazione mossa nei motivi di appello, secondo cui il mero mendacio non è sufficiente a configurare il reato di truffa, la Corte d’appello territoriale ha risposto evidenziando che l’artificio e l’induzione in errore del soggetto passivo sono in realtà presenti anche nella compensazione illecita “…la cui consumazione determina altresì - in modo naturalistico e inevitabile - il conseguimento del profitto e il corrispettivo danno del soggetto passivo, benché tali ultimi eventi siano formalmente indifferenti ai fini della consumazione del reato”.
In particolare, la Corte d’appello precisa che la fattispecie delittuosa di cui si tratta - in vigore dal 4 luglio 2006 - doveva già ritenersi compresa nell’articolo 316-ter del codice penale (che punisce l’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato), introdotto dalla legge 300/2000 (cfr Cassazione, sentenza 16568/2007).

Per la Cassazione tali argomentazioni sono fondate, in quanto il nucleo comune delle due disposizioni “…sta proprio nella falsità ideologica della dichiarazione attestandosi nell’ipotesi del reato fiscale l’esistenza di crediti inesistenti da portare in compensazione. L’art. 10-quater citato richiede, peraltro, solo il dolo generico, senza l’ulteriore intento specifico di evasione”.

Da tali premesse, conclude la Cassazione, poiché all’epoca dei fatti di causa l’articolo 316-ter risultava già introdotto nel codice penale è indubbio che, seppur con la doverosa rettifica della motivazione di appello, rimane immutata la conclusione dei giudici di secondo grado. Ovviamente, stante il rapporto di specialità della fattispecie penale tributaria rispetto a quella prevista dal codice penale, a seguito dell’introduzione nel nostro ordinamento sanzionatorio del reato specifico di indebita compensazione di cui all’articolo 10-quater, per i reati commessi successivamente alla sua introduzione questa norma prevarrà sull’articolo 316-ter cp.
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