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Giurisprudenza

Irap dovuta dal professionista
che paga profumatamente un terzo

L’erogazione di un compenso salato per usufruire del lavoro altrui evidenzia l’esistenza di un’autonoma organizzazione, che è il pilastro su cui posa il tributo regionale

pagamento
Chi affida, in modo non occasionale, a una società di servizi retribuita a percentuale, le attività strettamente connesse a quella oggetto della propria professione, pagando una cospicua somma di denaro, è tenuto al versamento dell’Irap.
Questo è quanto è stato chiarito dalla Corte di cassazione, con la sentenza 22674 del 24 ottobre.
 
Il fatto
In seguito a un controllo automatizzato (articolo 36-bis del Dpr 600/1973) effettuato sulla dichiarazione dei redditi di un professionista, allo stesso è stata notificata una cartella di pagamento per omesso versamento dell’Irap.
Avverso la pretesa impositiva, il contribuente si è rivolto alla Commissione tributaria provinciale, che ha accolto la tesi difensiva del professionista.
 
L’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza e i giudici tributari d’appello hanno riformato in toto la decisione di primo grado, disponendo che l’attività svolta dal professionista non poteva essere comparata con quella dello studio associato, esente dal pagamento dell’imposta contestata.
In particolare, i giudici della Ctr hanno chiarito che chiunque avesse tratto utilità organizzativa da una struttura terza, attraverso servizi vari, quali utilizzo di strumenti informatici, riviste, attrezzatura varia, segreteria, eccetera, non poteva essere considerato, ai fini fiscali, al pari del professionista di uno studio associato.
Nel caso concreto, il contribuente stesso aveva dichiarato che una società terza aveva svolto per suo conto prestazioni di servizi inerenti alla propria attività professionale, percependo una cospicua somma di denaro. Da ciò, ne consegue l’esistenza del requisito dell’autonoma organizzazione, presupposto impositivo dell’Irap.
 
Avverso la sentenza della Commissione regionale, il professionista ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che i giudici, seppur in assenza di un’istanza di rimborso, avevano fatto ricadere su di lui l’onere di provare l’illegittimità della pretesa impositiva della cartella esattoriale, e avevano equiparato l’associazione professionale con l’attività professionale che si avvale della società di servizi terza e che, in ultimo, mancava nella sentenza un’adeguata motivazione sulla natura non continuativa della prestazione di servizi svolta dalla società.
 
La Corte suprema, con la sentenza 22674/2014, ha preliminarmente chiarito la natura impositiva dell’Irap.
Ai sensi del combinato disposto dell’articolo 2, comma 1, primo periodo, del Dlgs 446/1997, e dell’articolo 3, comma 1, lettera c), dello stesso decreto, l’esercizio delle attività di lavoro autonomo, di cui all’articolo 49, comma 1, del Tuir, è escluso dall’applicazione dell’Irap solo quando si tratta di attività non autonomamente organizzata.
Il rilevamento dell’esistenza del requisito dell’autonoma organizzazione, come è stato più volte affermato anche dalla giurisprudenza delle Corte, spetta al giudice di merito ed è insindacabile. Anche se, in realtà, il citato giudizio può essere modificato in sede di legittimità solo quando congruamente motivato dal ricorrente, nel senso che il contribuente riesca a provare che l’impiego dei beni strumentali sia il minimo e indispensabile per l’esercizio dell’attività professionale e che questi ricorra solo occasionalmente al lavoro altrui.
 
In considerazione dell’effettivo impiego non occasionale di lavoro altrui, il Collegio ha in precedenza affermato un principio fondamentale, cioè che il professionista è soggetto al versamento dell’Irap se eroga elevati compensi a terzi per prestazioni afferenti la propria professione, a prescindere dal mancato impiego, da parte del contribuente, di lavoro dipendente.
 
Nel caso in esame, osserva la Corte, il professionista ha versato una cifra consistente a una società di servizi che ha svolto per lui attività di consulenza fiscale e societaria, tenendo pure la contabilità della sua clientela: attività non certamente occasionale, anche tenuto conto che la società veniva retribuita a percentuale (l’ingente somma percepita dalla società di servizi evince chiaramente che il lavoro non era affatto saltuario).
 
La Ctr, quindi, ha correttamente affermato la sussistenza di una stabile organizzazione imprenditoriale “restando indifferente il mezzo giuridico col quale quest'ultima è attuata (dipendenti ovvero società di servizi ovvero associazione professionale) e che rende possibile lo svolgimento (complesso) della attività (complessa) dei professionisti”: è ciò che rileva ai fini impositivi dell’Irap.
 
Per quanto concerne la doglianza dell’onere della prova, che secondo il professionista spettava all’Agenzia delle Entrate, perché pretendente il tributo, secondo la Corte, l’Amministrazione deve sì dare prova della pretesa tributaria, ma è altrettanto vero che può adempiere a quanto previsto dalla norma tributaria anche mediante presunzione, pertanto, nel caso in questione, spetta al contribuente fornire idonea prova contraria al fine di confutare il presupposto impositivo della cartella di pagamento emessa per l’Irap non versata.
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