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Giurisprudenza

Fatture per operazioni “irreali”?
Il versamento Iva è pieno e reale

Quando alla base dei documenti contabili non c’è alcun acquisto di beni e servizi, l’imposta va considerata “fuori conto” e la relativa obbligazione comunque adempiuta

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L’emittente di fatture fittizie non può giovarsi di una nota di credito per evitare il pagamento dell’Iva indebitamente fatturata, considerato che la rettifica dell’imponibile e della relativa imposta presuppone il compimento di un’operazione reale.
A sottolinearlo, la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 12995 del 9 giugno 2014.
Ai sensi dell’articolo 21, comma 7, Dpr 633/1972, infatti, se viene emessa una fattura per operazioni inesistenti ovvero se nella fattura i corrispettivi sono indicati in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare. Si tratta del cosiddetto principio di formalità dell’imposta per effetto del quale, se l’Iva è indicata nella fattura o in qualsiasi altro documento che ne fa le veci, essa deve essere comunque versata all’Erario (Cassazione, 12353/2005).
 
La citata norma non è stata creata per fini sanzionatori, piuttosto per ricondurre a coerenza il sistema impositivo Iva fondato sui principi della rivalsa e della detrazione (Cassazione, 7289/2001). In tal senso dispone anche l’articolo 203 della direttiva Cee 112/2006, secondo cui “l’Iva è dovuta da chiunque indichi tale imposta in una fattura”. La finalità è chiara: scongiurare il rischio di frodi fiscali, ossia l’indebita detrazione d’imposta da parte di operatori economici, destinatari della presunta prestazione.
 
Il fatto
Il contenzioso origina da un avviso di accertamento, con cui l’ufficio di Lodi contestava a una società il mancato versamento dell’Iva a fronte dell’emissione di due fatture relative a operazioni oggettivamente inesistenti. La società incardinava regolare giudizio contestando la fondatezza del rilievo ai fini Iva. Il ricorso veniva respinto; stesso verdetto in appello. Difatti, i giudici di merito, sia in primo grado sia in secondo, hanno condiviso le argomentazioni esposte dall’ufficio. La società, successivamente, ha presentato ricorso per cassazione, denunciando la violazione dell’articolo 21, comma 7 del Dpr 633/1972, in quanto la Ctr avrebbe ritenuto legittima la pretesa fiscale sulla base di due fatture per operazioni inesistenti immediatamente espunte dalla contabilità, senza determinare alcun effetto distorsivo per il Fisco.
 
La decisione
La Corte, nel respingere il ricorso, evidenzia come il diritto comunitario non impedisce agli Stati membri di ritenere la redazione di fatture fittizie, che indicano indebitamente un’imposta sul valore aggiunto, come un tentativo di frode fiscale e di applicare, in tal caso, le ammende o sanzioni pecuniarie previste dal loro diritto nazionale.
 
Del resto, sottolinea la Cassazione, l’emissione di fatture per operazioni inesistenti ha sempre costituito condotta penalmente sanzionata come delitto (Cassazione, 7289/2001 e l4337/2002).
L’articolo 21, comma 7, va letto nel senso che “il tributo viene ad essere considerato fuori conto e la relativa obbligazione, conseguentemente isolata dalla massa di operazioni effettuate, estraniata, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra Iva a valle ed Iva a monte”.
Se la fattura si riferisce a un’operazione inesistente, non è consentita la variazione in diminuzione; conseguentemente il cedente o falso prestatore deve sempre versare l’imposta esposta in fattura, mentre l’acquirente o il committente non può in alcun caso portare in detrazione l’Iva per assenza del suo presupposto, ossia l’acquisto di beni o servizi acquistati nell’esercizio d’impresa, arte o professione (Cassazione, 12353/2005).
 
La ratio è quella di scongiurare fenomeni elusivi; difatti, il beneficio della detrazione non è accordabile, per il diritto comunitario, laddove sia provato che lo stesso è invocato fraudolentemente o abusivamente.
In particolare, la Cassazione, con ordinanza 10178/2014, ha statuito che l'Amministrazione può provare la connivenza del cessionario nella frode del cedente anche mediante presunzioni semplici, “le quali possono derivare anche dalle medesime risultanze di fatto attinenti alla natura di cartiera del cedente”.
Di contro, il contribuente dovrà provare l’esistenza effettiva, anche sul piano soggettivo, degli acquisti operati e documentati nelle fatture, nonché la sua buona fede in ordine al carattere fraudolento delle operazioni a monte del proprio acquisto.
 
In sostanza, il principio di effettività prevale su quello di cartolarità del tributo (Cassazione, 5979/2014); il principio di neutralità fiscale, inoltre, non osta a che l’Amministrazione finanziaria neghi il rimborso dell’Iva versata dalla società prestatrice del servizio quando l’esercizio del diritto alla detrazione sia stato negato alla società destinataria della prestazione (Corte di giustizia 8 maggio 2013, C-271/12).
 
Del resto, la procedura di variazione dell’imponibile e dell’imposta contenuta nell’articolo 26, secondo e terzo comma, del citato Dpr, consente la variazione in diminuzione entro un anno dall’effettuazione dell’operazione, limitatamente al caso di “rettifiche di inesattezze di fatturazione che abbiano dato luogo all’applicazione del settimo comma dell’art. 21”. Non sembra, dunque, che il legislatore abbia esplicato le modalità di regolarizzazione nel caso in cui le fatture vengono emesse in maniera abusiva.
Ovviamente, se la maggiore imposta esposta in fattura è conseguenza di un errore, il contribuente in buona fede potrà rettificarla in base all’articolo 26.
 
In definitiva, per attivare la procedura di rettifica necessitano due condizioni: la regolare emissione di fattura e la riconducibilità dell’operazione a un negozio giuridico reale, destinato a produrre effetti tra le parti (risoluzione ministeriale n. 370859 del 4 novembre 1981).
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