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Giurisprudenza

È sempre l’atto alla registrazione
a pagare l’imposta. Salvo eccezioni

Le modifiche apportate dai Bilanci per il 2018 e il 2019 sono costituzionalmente legittime. Ai fini della tassazione, è giusto prescindere dagli elementi extratestuali collegati al documento principale

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Con la sentenza n. 158/2020 la Corte costituzionale ha affermato il principio che, salvo i casi espressamente stabiliti dal testo unico in materia di imposta di registro, l’imposizione risulta essere sempre circoscritta agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, senza che possano essere svolte indagini sugli effetti ulteriori.

La Corte di cassazione, riprendendo uno dei temi più discussi dalla giurisprudenza di merito, ha rimesso ai giudici della Corte costituzionale l’annosa questione legata all’interpretazione degli atti ai fini della tassazione in tema di imposta di registro.
Si tratta, nello specifico, dell’articolo 20 del Dpr n. 131/1986 (testo unico delle disposizioni in materia di imposta di registro, il Tur), la cui precedente formulazione, in vigore fino al 31 dicembre 2017, prevedendo che l’imposta fosse “… applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche  se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”, era pienamente coerente con il principio, da sempre sostenuto dalla dottrina e dalla consolidata giurisprudenza, di far prevalere la sostanza economica dell’atto sulla sua forma giuridica.
Con la modifica apportata dalla legge di bilancio 2018, tale disposizione veniva integrata dal legislatore, prevedendo così che l’applicazione dell’imposta agli atti sottoposti a registrazione dovesse avvenire in ogni caso “prescindendo da quelli extratestuali e degli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi” del testo unico (articolo 1, comma 87, lettera a), legge n. 205/2017).
Tale previsione, inizialmente reputata innovativa, e non interpretativa, da parte della consolidata giurisprudenza di Cassazione, ha invece subito trovato qualificazione della sua portata retroattiva da parte del legislatore il quale, con la legge di bilancio 2019, ha stabilito, in particolare, che la modifica normativa citata “… costituisce interpretazione autentica dell’articolo 20, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131” (articolo 1, comma 1084, legge n. 145/2018).

In relazione a tali disposizioni, la Corte di cassazione, ritenendo che le stesse abbiano di fatto determinato una nuova e più ristretta formulazione dell’articolo 20 del Tur, ha sollevato d’ufficio questioni di legittimità costituzionale, per violazione:

  • dell’articolo 53 della Costituzione, in quanto, contrastando con il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, l’esclusione del collegamento negoziale dall’opera di qualificazione giuridica dell’atto produrrebbe l’effetto pratico di sottrarre a imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva
  • dell’articolo 3 della Costituzione, considerato che a pari manifestazioni di forza economica (e quindi di capacità contributiva) non possano corrispondere imposizioni di diversa entità, rilevando ai fini della tassazione la circostanza che le parti abbiano stabilito di realizzare il proprio assetto di interessi con un solo atto negoziale piuttosto che con più atti collegati.

La Corte costituzionale, analizzata la questione, ha ritenuto tali questioni non fondate.
Prima di tutto i giudici di legittimità osservano come, fin dall’originaria disciplina in tema di tassa di registro, sia nato un acceso dibattito tra chi sosteneva fermamente la necessità di una considerazione della sostanza economica sottostante all’attività giuridica espressa negli atti e chi invece la negava in radice, propendendo a favore di un criterio di tassazione fondato sugli effetti giuridici, seppur potenziali, degli schemi negoziali utilizzati.

Il legislatore sembrò, dopo anni, chiudere quel dibattito, che si era riflesso anche nella giurisprudenza, quando con la riforma tributaria aggiunse all’articolo 19 della disciplina dell’imposta di registro (Dpr n. 634/19729, relativo appunto all’interpretazione degli atti, l’esplicito riferimento agli “effetti giuridici”, espressione poi recepita dall’attuale Tur all’articolo 20.

Tuttavia, dopo alcuni decenni, nella giurisprudenza di legittimità sono riemerse delle nuove divergenze di pensiero tra una parte maggioritaria che, in coerenza con il diffondersi della prospettiva del contrasto all’abuso del diritto, pur convergendo sull’affermazione che l’articolo 20 detta una regola meramente interpretativa e non antielusiva, riteneva che la norma consentisse in ogni caso di individuare la “reale operazione economica” perseguita dalle parti, in ragione del principio della prevalenza della sostanza sulla forma, e quella minoritaria, che invece affermava che la riqualificazione non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici.
Anche in conseguenza di tale contrasto, il legislatore tributario è intervenuto sull’articolo 20 stabilendo espressamente – in sostanziale adesione alla giurisprudenza minoritaria della Corte di cassazione – che, nell’interpretare l’atto presentato a registrazione, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, si debba prescindere dagli elementi extra-testuali e dagli atti a esso collegati, salvo le eccezioni previste dal testo unico.

Secondo i giudici di legittimità, la presa di posizione del legislatore, nel confermare la tassazione isolata del negozio veicolato dall’atto presentato alla registrazione secondo gli effetti giuridici da esso desumibili, si mostra coerente con i principi ispiratori della disciplina dell’imposta di registro e, in particolare, con la natura di “imposta d’atto” storicamente riconosciuta al tributo di registro, dopo la sostanziale evoluzione da tassa a imposta.
Il censurato intervento normativo appare, quindi, finalizzato a ricondurre l’articolo 20 all’interno del suo alveo originario, dove l’interpretazione, in linea con le specificità del diritto tributario, risulta circoscritta agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, senza che possano essere svolte indagini circa effetti ulteriori, salvo che ciò sia espressamente stabilito dalla stessa disciplina del Tur.
Una conferma di ciò si ricaverebbe proprio dalla clausola finale del censurato articolo 20 “salvo quanto disposto dagli articoli successivi”. Per effetto della novella, infatti, le ipotesi riconducibili all’accezione restrittiva generale della nozione di “atto” presentato alla registrazione sono individuabili solo al di fuori di quelle, espressamente regolate dallo stesso testo unico, che ammettono la rilevanza degli effetti di separati atti o fatti collegati o, in altri termini, di vicende rientranti nel complessivo programma di azione costituito da un precedente negozio, che incideranno sul regime fiscale di quest’ultimo o comporteranno trattamenti d’imposta diversificati.
 
La Corte costituzionale ritiene le questioni prospettate con riferimento agli articoli 3 e 53 della Costituzione non fondate perché si basano sull’assunto che, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, i fatti espressivi della capacità contributiva, indicati negli effetti giuridici desumibili, anche aliunde, dalla causa concreta del negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione, sono i soli costituzionalmente compatibili. Tale assunto non può essere accolto proprio perché le modalità di concretizzazione dei principi di capacità contributiva e, conseguentemente, di eguaglianza tributaria, è comunque lasciata al legislatore, il quale può identificare i presupposti impostivi nei soli effetti giuridici desumibili dal negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione, senza alcun rilievo di elementi tratti da altre fonti.

Del resto, la scelta del legislatore di definire il criterio di qualificazione degli atti, nonché quello di normare in via interpretativa, risulta omogeneo al contesto delle regole previste dal Tur, dove l’imposizione avviene in ragione degli effetti giuridici dei singoli atti distintamente individuati dal legislatore nelle relative voci di tariffa a esso allegata.

Inoltre, viene osservato dai giudici di legittimità che l’eventuale ottenimento di indebiti vantaggi fiscali sottratti all’imposizione a seguito di tale lettura restrittiva della norma potrebbe invece rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto.
In presenza di un collegamento negoziale, infatti, una diversa interpretazione della norma incentrata sulla nozione di “causa reale” comporterebbe delle incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione dell’articolo 10-bis della legge n. 212/2000 (Statuto del contribuente), in quanto consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale, cosa invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione europea.

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