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Giurisprudenza

Documenti di trasporto duplicati:
la cessione di mosto di vino è a nero

Legittimo l’avviso di accertamento emesso sulla base del pvc della Guardia di finanza che aveva rilevato delle difformità tra i Ddt e le dichiarazioni ai fini Iva e Irap

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Da molteplici elementi di fatto, fra cui il rinvenimento nel corso di indagini e ispezioni di documenti di trasporto (Ddt) duplicati al fine di giustificare cessioni occulte di merce, è confermata la tesi dell’Amministrazione finanziaria secondo cui la società, che commercializzava in particolare mosto di vino, aveva occultato maggiori ricavi. È in sintesi la conclusione della sentenza della Ctp di Ravenna  n. 229/01/21 del 4 ottobre 2021.

I fatti
Una società che si occupava della produzione e vendita di prodotti alimentari, aveva proposto ricorso contro un avviso di accertamento emesso a seguito di un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, nell’ambito una complessa indagine preliminare penale svolta su segnalazione dell’Ispettorato centrale per la tutela della qualità e per la repressione delle frodi.
In particolare, la Guardia di Finanza aveva fondatamente ritenuto che la società mettesse in atto operazioni fraudolente al fine di commercializzare, senza dichiararlo ai fini fiscali, mosto cotto ed aceto di vino.
La stesa GdF aveva, inoltre, constatato una difformità tra le dichiarazioni fiscali presentate dalla società a fini Irap e Iva e i documenti di trasporto (Ddt) relativi alla vendita di alcuni condimenti alimentari.
Secondo i giudici tributari provinciali tutto “ciò avrebbe consentito all’Ufficio delle Entrate di Ravenna di ipotizzare, ma secondo la ricorrente sulla base di argomenti indiziari e mere congetture, l’esistenza di un maggjor reddito Irap e Iva su cui si fonderebbe quindi l’avviso impugnato”.
Con ricorso, depositato in data 2 aprile 2020, la società lamentava una presunta illegittimità dell’atto impositivo impugnato.
L’Agenzia delle entrate, successivamente, si costituiva nel giudizio tributario di primo grado (ex articolo 23 del Dlgs n. 546/1992), con analitiche controdeduzioni, nelle quali rivendicava e concretamente dimostrava la fondatezza, nonché la piena legittimità del proprio operato.

La motivazione della sentenza
La Commissione tributaria provinciale dopo aver esaminato le contrapposte posizioni dall’Amministrazione finanziaria e dalla parte privata, nonché i molteplici e oggettivi elementi posti dall’Ufficio tributario alla base dei rilievi fiscali mossi alla società, ha ritenuto infondato e ha quindi respinto il ricorso.
La stessa Ctp, inoltre, ha evidenziato che le eccezioni preliminari sollevate dalla società sono prive di fondamento, in quanto l’accertamento parziale è sempre consentito, anche sulla base dei risultati dell’attività di verifica, quando risultino elementi che consentono di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato.
In particolare, i giudici hanno sottolineato che “l’accertamento parziale, che è uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui agli artt. 38 e 39 del D.P.R. n. 600 del 1973 e 54 e 55 del D.P.R. n. 633 del 1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le stesse regole, per cui può basarsi senza limiti anche sul metodo induttivo e il relativo avviso può essere emesso pur in presenza di una contabilità tenuta in modo regolare. (Cass. 28681/2019)”.
Quanto affermato in merito all’accertamento parziale utilizzato dall’Ufficio, si inserisce, in maniera puntuale e precisa, in un consolidato e recente orientamento giurisprudenziale di legittimità (Cassazione, ordinanza n. 25255/2020, sentenza n. 34518/2019, ordinanze n. 25018/2018, n. 25989/2014, n. 27323/2014, n. 25335/2010, n. 2761/2009 e. n. 5977/2007).
I giudici di primo grado hanno poi osservato che l’Ufficio si è limitato ad accertare, in maniera specifica e motivata, e a comunicare con un atto impositivo validamente notificato alla società, l’esistenza di maggiori ricavi, ottenuti moltiplicando la quantità di merce descritta nei documenti di trasporto (ddt) duplicati, per il prezzo di chilogrammo medio di vendita praticato dalla stessa società. Di contro la società ricorrente, che sostiene la pretesa regolarità della propria documentazione contabile, nulla dice in merito alla presenza di  tali documenti, accertata nel corso delle ispezioni condotte in particolare dall’Istituto centrale di repressione delle frodi alimentari che, in sede di perquisizione presso i locali della società, ha rinvenuto alcune cartelle informatiche (denominate fatture 2015, ddt, ddt 2014, fatture 2014) all’interno delle quali sono stati individuati i file rappresentanti documenti di trasporto e contrassegnati con le lettere xxxx,. Quest’ultimi non hanno trovato alcun riscontro nella documentazione contabile esibita dalla società in sede di controllo. Mentre i file che non contenevano le lettere xxxx hanno avuto un riscontro positivo.
Il collegio giudicante ha, inoltre, sottolineato che “sono stati in tal modo individuati numerosi documenti di cessione di mosto cotto ed aceto di vino non riscontrati nella contabilità, anche con utilizzo di documenti intestati più volte. Vi sono state perciò numerosi trasporti di merce relativi a cessioni in nero recuperate a tassazione dagli inquirenti”.

La stessa Ctp, portando poi a termine il proprio ragionamento logico-giuridico costituente la parte motivazionale della propria pronuncia, ha statuito che “risulta in definitiva dagli atti che i recuperi di imposta di cui si discorre sono originati dal rinvenimento nel corso di indagini ed ispezioni di documenti di trasporto duplicati al fine di giustificare cessioni occulte di merce; in alcuni casi è stato accertato che lo stesso numero di Ddt veniva utilizzato per più di due viaggi. Il riscontro tra la merce fatturata (mosto e aceto) e quanto emerso dai documenti di trasporto duplicati ed infedeli, ha consentito di quantificare il prodotto ceduto in nero; in particolare per l’anno d’imposta 2014, la ricorrente cedeva 75.909 chilogrammi di condimento alimentare senza annotare i relativi ricavi nelle scritture contabili”.
La Commissione provinciale, in conclusione, ritiene che il ricorso presentato dalla società essere rigettato e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 

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