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Giurisprudenza

Il danno da svalutazione monetaria vuole la prova certa

Non basta addurre la qualità di imprenditore e invocare il fenomeno inflativo come fatto notorio

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Nelle obbligazioni pecuniarie, tra le quali rientrano anche i crediti di imposta, la svalutazione monetaria intervenuta durante la mora debendi non giustifica un risarcimento automatico, ma al creditore spetta l'onere di provare l'esistenza di un danno maggiore di quello risarcito mediante la corresponsione degli interessi.
In particolare, a quelle peculiari obbligazioni pecuniarie costituite dai crediti di imposta sono inapplicabili le disposizioni di cui agli articoli 1224, comma 1, e 1284 del Codice civile, essendo la disciplina dei relativi interessi moratori regolata da norme speciali, giustificate dalla natura del credito.

Di conseguenza, l'accertamento del danno da "svalutazione monetaria", impone una più rigorosa valutazione della domanda risarcitoria proposta dal contribuente-creditore che ha l'onere di dimostrare che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre gli effetti economici depauperativi che l'inflazione produce a carico di tutti i possessori di denaro. A tal fine, lo stesso creditore non può limitarsi ad addurre la propria qualità di imprenditore e a dedurre il fenomeno inflativo come fatto notorio, essendo egli tenuto, in base al generale criterio dell'onere della prova (articolo 2697 del Codice civile), a fornire indicazioni in ordine al danno da lui subito come effetto della indisponibilità del denaro determinata dall'inadempimento (quale, ad esempio, quello derivante da specifici investimenti programmati e non attuati), in modo da consentire al giudice di merito di verificare se lo stesso possa essersi verosimilmente prodotto, senza che la allegata qualità si risolva in un meccanismo di automatica rivalutazione di crediti.

Questo l'interessante principio enunciato dalle Sezioni unite della Cassazione nella sentenza n. 16871, depositata lo scorso 31 luglio, con la quale i giudici di piazza Cavour, per un verso, confermano un orientamento giurisprudenziale oramai consolidato in merito alla competenza giurisdizionale a decidere sulla richiesta di danno da svalutazione monetaria e, dall'altro, subordinano il riconoscimento del danno da svalutazione monetaria in ambito tributario a un più gravoso onere probatorio da parte del richiedente.
Ma vediamo brevemente i fatti di causa.

Un contribuente impugna il silenzio-rifiuto opposto dall'Amministrazione finanziaria all'istanza di rimborso di un'imposta corrisposta per un importo eccedente (a seguito di un errore di calcolo).
La Commissione tributaria provinciale, accogliendo il ricorso, disponeva il rimborso senza, tuttavia, provvedere in ordine agli interessi e alla rivalutazione monetaria chiesti dal contribuente con l'atto introduttivo del giudizio.
Il contribuente proponeva appello chiedendo la parziale riforma dell'impugnata sentenza in ordine alla liquidazione degli interessi e alla rivalutazione monetaria; l'Amministrazione si costituiva in giudizio ed eccepiva in via preliminare il difetto di giurisdizione del giudice tributario relativamente alla domanda concernente la rivalutazione monetaria.
Il giudice del gravame, in parziale accoglimento dell'appello, disponeva il rimborso degli interessi legali, mentre declinava la propria giurisdizione in ordine alla domanda di rivalutazione monetaria.
A questo punto, il contribuente ha proposto ricorso per cassazione contestando l'erronea dichiarazione di difetto di giurisdizione del giudice tributario.

In via preliminare, le Sezioni unite affermano - in forza del "principio della concentrazione" della tutela giurisdizionale, che caratterizza l'attuale sviluppo dell'ordinamento anche in materia tributaria - la giurisdizione del giudice tributario in ordine alla questione relativa alla rivalutazione monetaria delle somme versate a titolo di imposta e di cui il contribuente ottenga pronuncia di rimborso, in quanto consequenziale a una controversia tributaria; di seguito, poi, entrando nel merito della vicenda, rigettano la richiesta di rivalutazione monetaria cassando, senza rinvio, la sentenza impugnata.

Dall'esame degli atti di causa - consentito ai giudici delle Sezioni unite in quanto la Cassazione, investita della questione di giurisdizione, è anche giudice del fatto, come in ogni altro caso in cui la censura abbia a oggetto la violazione di una norma processuale (cfr., ex multis, Cassazione, SS.UU., sentenza n. 10840 del 10 luglio 2003) - emerge che la parte ricorrente, nell'introdurre il giudizio innanzi al Collegio di primo grado, si è limitata a formulare una generica richiesta di rivalutazione monetaria assumendo per certo che il risarcimento del danno mediante rivalutazione monetaria, cui fa riferimento la disposizione di cui all'articolo 1224, comma 2, del Codice civile, sia conseguenza diretta e imprescindibile dell'accertamento dell'indebito.
Ma per la Corte suprema non è proprio così.

Secondo l'orientamento più volte espresso dalla Corte, infatti, "nelle obbligazioni pecuniarie, il fenomeno inflattivo non consente un automatico adeguamento dell'ammontare del debito, né costituisce di per sé un danno risarcibile, ma può implicare, in applicazione dell'art. 1224, comma 2, del codice civile, solo il riconoscimento in favore del creditore, oltre che degli interessi, del maggior danno che sia derivato dall'impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui il creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l'inflazione produce a carico di tutti i possessori di denaro" (così, Cassazione, sentenza n. 255 dell'11 gennaio 2006).

Nel caso in esame, prosegue la Corte, in cui l'obbligazione pecuniaria è costituita da un credito di imposta, non sono applicabili le disposizioni di cui agli articoli 1224, comma 1, e 1284 del Codice civile, essendo la disciplina dei relativi interessi moratori regolata da norme speciali - ovvero dall'articolo 44 del Dpr 602/1973 (rubricato "Interessi per ritardato rimborso di imposte pagate") - giustificate dalla particolare natura del credito, qualità dei soggetti e presupposti del rapporto e che, prevalendo in ragione del principio di specialità sulla regola civilistica, la assorbono e la sostituiscono integralmente.
La differenza del parametro di riferimento - rispetto a quello risultante dal combinato disposto degli articoli 1224, comma 1, e 1284 del Codice civile - per la determinazione del "maggior danno" e la peculiarità del rapporto tributario esigono che la prova dello stesso risponda a criteri di specificità non bastando, in altri termini. "…allegare la propria qualità di imprenditore e a dedurre il fenomeno inflattivo come fatto notorio, essendo egli tenuto, in base al generale criterio dell'onere della prova (art. 2697 del codice civile), a fornire indicazioni in ordine al danno da lui subito come effetto dell'indisponibilità del denaro determinata dall'inadempimento (quale, ad esempio, quello derivante da specifici investimenti programmati e non attuati), in modo da consentire al giudice di merito di verificare se lo stesso possa essersi verosimilmente prodotto, senza che la allegata qualità si risolva in un meccanismo di automatica rivalutazione di crediti" (così, Cassazione, sentenza n. 14970 del 23 ottobre 2002).

In conclusione, per le Sezioni unite, nel caso sottoposto alla loro valutazione, il contribuente "…non ha dedotto l'esistenza di alcun danno eccedente quello risarcito dalla corresponsione degli interessi moratori nella speciale misura prevista dalla legge tributaria e nemmeno ha allegato di appartenere ad una specifica categoria di soggetti - quali quelle individuate dalla giurisprudenza nella figura dell'imprenditore, del risparmiatore abituale, del creditore occasionale o del modesto consumatore (vd. Cass. n. 2368 del 1986) - con propensioni economiche tali da giustificare, mediante l'impiego di 'dati personalizzati' (che devono essere anche essi forniti dall'interessato), l'utilizzo di presunzioni in ordine all'impiego del denaro se tempestivamente riscosso".
Ne consegue che la domanda di rivalutazione monetaria del credito tributario deve essere dichiarata inammissibile e ciò determina una carenza di interesse del ricorrente a una pronuncia sulla giurisdizione, atteso che egli - quale che sia il giudice cui appartenga la giurisdizione (in questo caso il giudice tributario) - non potrà conseguire un'utile decisione nel merito (positiva o negativa che sia).

Per completezza di trattazione e a conferma della minor rigidità probatoria richiesta, in materia di rivalutazione monetaria, in ambito civilistico, si segnala una pronuncia - la n. 58 del 7 gennaio 2004 - con la quale la Cassazione, sempre in tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie non di natura tributaria, ha avuto modo di affermare che "…nel caso in cui il creditore - del quale non sia controversa la qualità di imprenditore commerciale - deduca di aver subito dal ritardo del debitore nell'adempimento un pregiudizio conseguente al diminuito potere di acquisto della moneta, non è necessario, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all'indisponibilità del credito per effetto dell'inadempimento, dovendosi presumere, in base all''id quod plerumque accidit', che se vi fosse stato tempestivo adempimento la somma dovuta sarebbe stata utilizzata in impieghi antinflattivi".

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