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Giurisprudenza

Contabilità in nero: prove concrete
per ribattere alla rettifica del Fisco

Spetta al contribuente dimostrare la correttezza della sua condotta quando l’ufficio procede a ricostruire il reddito sulla base di documenti che fanno supporre ricavi occultati

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La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 22507 del 16 ottobre 2020, ha ribadito la rilevanza probatoria della cosiddetta contabilità in nero.
Nel caso in esame, la Commissione tributaria provinciale aveva parzialmente accolto il ricorso proposto dalla società contribuente contro un avviso di accertamento Ires, Irap e Iva per l'anno di imposta 2004, emesso, ai sensi dell'articolo 39, comma 1, del Dpr n. 600/1973, recuperando maggiori ricavi, pari a 73.430 euro sulla base del rinvenimento di documentazione extracontabile, “in nero”, costituita da buoni di consegna contenenti il nome del cliente, la data di consegna, l'importo della cessione e la dicitura a penna “scaricato”, che però non avevano trovato corrispondenza nella contabilità ufficiale, in scontrini o fatture.
La Ctp aveva ritenuto nel complesso legittimo l'operato dell'ufficio, riducendo parzialmente i maggiori ricavi rilevati in conseguenza della produzione, da parte della contribuente, di scontrini giustificativi di ricavi regolarmente contabilizzati per tale importo.

La società proponeva appello e la Commissione tributaria regionale lo rigettava, aderendo alla motivazione della sentenza di primo grado, ritenuta approfondita e dettagliata, e rilevando come non vi fosse stata alcuna violazione del diritto di difesa della contribuente, la quale era stata posta a conoscenza delle violazioni contestate e delle prove emerse a suo carico, così da consentirle un pieno diritto di difesa, laddove, peraltro, le tesi difensive proposte dalla stessa contribuente, secondo i giudici di merito, non avevano dedotto alcun elemento concreto idoneo a disattendere le conclusioni cui erano pervenuti i verificatori, risolvendosi in “mere affermazioni di principio”.
La società, infine, ricorreva per cassazione, lamentando omessa motivazione circa più fatti controversi e decisivi per il giudizio, con particolare riguardo alla questione dei buoni di consegna, su cui era imperniato l'intero giudizio, laddove la contribuente aveva richiesto che i buoni fossero verificati nel giudizio alla luce di prospetti riconciliativi che aveva prodotto in corso di giudizio.
Con un secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduceva poi la violazione degli articoli 112, 115 e 116 cpc e 2697 cc, per avere il Tribunale regionale omesso di esaminare le prove dedotte dalla società, che, se fossero state valutate, avrebbero, a suo avviso, portato a una diversa soluzione, laddove la sentenza si era invece basata esclusivamente sui “buoni di consegna”, non verificati nel giudizio e, quindi, su una prova inesistente, pur spettando all'ufficio fornire la prova dei recuperi operati, essendo l’Amministrazione finanziaria parte attrice sostanziale nel processo tributario.

Secondo la Corte suprema il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, relativo, come detto, all’omesso esame di un fatto che avrebbe potuto essere decisivo e cioè la dimostrazione che le cessioni ritenute “in nero” erano state invece ritualmente contabilizzate, i giudici di legittimità rilevano, per quanto di interesse, che non si trattava in realtà di un “fatto storico”, bensì di una mera “ipotesi” formulata dalla contribuente, che si scontrava peraltro contro la chiara affermazione della sentenza impugnata, per cui era stato invece accertato che quei “buoni” non trovavano riscontro nella contabilità attraverso la emissione di fatture o di scontrini.
Quanto poi al secondo motivo di impugnazione, con cui, come visto, si deduceva la violazione dell'onere della prova per non avere la sentenza valutato quanto prodotto a sua difesa dalla contribuente e per avere, comunque, omesso di considerare che la prova dei maggiori ricavi doveva essere offerta dall'ufficio quale attore del processo tributario, la Cassazione afferma che, la ricorrente invocava l'applicazione di princìpi giuridici erronei, poiché, al contrario di quanto dalla stessa sostenuto, in presenza del reperimento di documenti extracontabili dimostrativi di attività nascosta era stata correttamente ritenuta la sussistenza di ricavi non contabilizzati, sulla base di una presunzione in presenza della quale spettava al contribuente fornire la prova contraria.

Come, infatti, già affermato dalla giurisprudenza consolidata di legittimità, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la contabilità in nero, costituita da appunti personali dell'imprenditore o, comunque, da documenti non transitati nella contabilità ufficiale, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, prescritti dall'art. 39 del Dpr. n. 600 del 1973, perché nella nozione di scritture contabili, disciplinate dagli articoli 2709 e seguenti cc, devono ricomprendersi tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d'impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell'imprenditore e il risultato economico dell'attività svolta (Cassazione, sezione V, ordinanze n. 27622/2018, e n. 12680/2018.

E con riguardo alla pretesa violazione dell'onere della prova, aggiunge la Corte, la pronuncia impugnata, laddove aveva specificamente rilevato che la contribuente non aveva fornito alcuna valida prova contraria alle conclusioni cui erano pervenuti i verificatori, limitandosi a generiche affermazioni prive di qualsiasi concretezza, aveva correttamente applicato il principio, affermato proprio con riferimento al reperimento della contabilità in nero, per cui, costituendo i ricavi occultati, anche da soli, un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti, ciò comporta anche un'inversione dell'onere della prova, incombendo, pertanto, al contribuente l'onere di scagionarsi (Cassazione sezione V, pronunce n. 4080/2015, ordinanza n. 27622/2018, ordinanza n. 12680/2018).
Prova contraria che, nella specie, non era stata fornita.

In conclusione e a prescindere dallo specifico caso processuale, come più volte ribadito dalla Cassazione, la contabilità in nero (anche quella rinvenuta presso terzi; vedi ordinanza n. 32391/2019), rappresenta un valido elemento indiziario e, per il suo valore probatorio, legittima, di per sé, e a prescindere dalla sussistenza di altri elementi, il ricorso all'accertamento induttivo.
L'Amministrazione Finanziaria, qualora l'esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione risulti in modo certo e diretto da qualsiasi altro atto e documento in suo possesso, può dunque procedere alla rettifica anche indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente (Cassazione, sentenza n. 1499/2017).
Qualunque documento o dichiarazione, comprese le annotazioni, i brogliacci e la contabilità “informale”, può costituire, in sostanza, la base per una presunzione idonea a produrre conclusioni probatorie circa i fatti di causa, consentendo così l’ingresso nel processo tributario, sotto forma di presunzioni semplici, anche delle prove atipiche.

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