Articolo pubblicato su FiscoOggi (https://fiscooggi.it/)

Giurisprudenza

La compravendita è sfumata:
l’Irpef chiama in causa la caparra

Corretto considerarla “plusvalenza” e legittimo, quindi, l’avviso di accertamento dell’ufficio. Né è annullabile la sentenza d’appello perché “fotocopia” di quella della commissione provinciale

La caparra convenuta nel preliminare di compravendita è assoggettabile a imposizione diretta in quanto la prestazione principale, rimasta ineseguita, avrebbe costituito reddito ai sensi dell’articolo 67, comma 1, del Tuir
A stabilirlo è la Corte di cassazione, con la sentenza 11307 del 31 maggio 2016.
La Corte di legittimità ha preliminarmente evidenziato la natura risarcitoria della caparra incassata dal promissario venditore per inadempimento della parte promissaria acquirente e, successivamente, ha statuito per l’assoggettamento della somma a Irpef come plusvalenza imponibile.
 
Il fatto
Nella controversia in esame viene proposto ricorso in cassazione per l’annullamento della sentenza della Ctr della Calabria che, rigettando l’appello proposto dal contribuente, ha confermato la legittimità dell’avviso di accertamento, ai fini dell’Irpef, relativo all’incasso di una somma a titolo di caparra, convenuta nel preliminare di compravendita cui non era seguita la stipula del definitivo.
I giudici di merito, premesso che la caparra andava inquadrata nella previsione dell’articolo 6, comma 2, del Tuir, secondo il quale sono considerati redditi della stessa categoria di quelli perduti “le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di diritti”, hanno affermato la tassabilità della stessa, rappresentando, appunto, la somma, risarcimento della perdita di proventi che, per loro natura, avrebbero generato redditi tassabili, con il conseguimento di una plusvalenza ai sensi dell’articolo 67 del Tuir.
 
La decisione
La Cassazione ha ritenuto infondati i motivi dell’impugnazione. I giudici di legittimità hanno, infatti, rigettato il ricorso proposto dal contribuente, che chiedeva l’annullamento della sentenza di secondo grado, ravvisando “errores in iudicando ed in procedendo” dolendosi, specificamente, della “omessa pronuncia sul motivo di appello con il quale il contribuente lamentava il vizio di una sentenza di primo grado appiattita/fotocopia delle tesi erariali”. I giudici di appello si sarebbero in sostanza limitati a rilevare che “i giudici di prime cure, condividendo l’operato dell'ufficio impositore, hanno applicato alla fattispecie in esame l’art. 6, comma 2, in correlazione all’art. 67 (redditi diversi), comma 1, lettera a), del d.P.R 917/1986”.
 
Al riguardo, il Collegio supremo, richiamando un precedente di Cassazione a sezioni unite (sentenza 642/2015), chiarisce che non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di provvedimenti giudiziari (ovvero anche di atti di parte o di altri atti processuali), eventualmente anche senza nulla aggiungere agli stessi, sempre che, tuttavia, le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo.
Non può ritenersi nulla, quindi, la sentenza atteso che, tra l’altro, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica redazionale delle sentenze non può ritenersi tout court indicativa di un difetto d’imparzialità del giudice, al quale peraltro non è richiesto l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive. Inoltre, non può considerarsi nulla la pronuncia nel caso di specie, considerato che i giudici di appello hanno argomentato, nelle pagine successive, dopo un esame critico della questione, quanto sostenuto in primo grado.
 
Con un secondo motivo, il contribuente denunciava la nullità della sentenza impugnata per aver ritenuto legittimo l’accertamento che ha assoggettato a tassazione la somma trattenuta dal contribuente, “non considerandone la natura puramente di pena privata stabilita convenzionalmente a fronte del recesso di parte promissaria acquirente, non rientrando la stessa in alcuna delle categorie reddituali previste dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6” e non essendoci, quindi, alcun reddito da assoggettare a tassazione separata.
Anche questo motivo, per i supremi giudici, è infondato, in quanto non viene individuato l’errore o gli errori di diritto commessi dal giudice d’appello.
La Commissione regionale ha ritenuto la clausola penale rientrante nel disposto dell’articolo 6, comma 2, del Tuir, secondo il quale sono considerati redditi della stessa categoria di quelli perduti “le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di diritti”.
In questa prospettiva, quindi, in relazione all’incremento patrimoniale che si verifica a vantaggio della parte non inadempiente sono state individuate, ai fini tributari, una componente risarcitoria della perdita subita e una componente risarcitoria del mancato guadagno. Quest’ultima, è assimilata a reddito e, quindi, assoggettata a imposizione diretta, in quanto sostitutiva di detto mancato reddito (che sarebbe stato tassato ai sensi dell’articolo 67, comma 1, Tuir) a causa dell’inadempimento dell’altro contraente.
 
Il ricorso, pertanto, è stato rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese.
La condanna alla spese ha previsto anche l’applicazione dell’articolo 13, comma 1-quater, del Dpr 115/2002, quindi, il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.
 
Osservazioni
La caparra confirmatoria è disciplinata dall’articolo 1385 del codice civile, il quale dispone che: “Se al momento della conclusione del contratto una parte dà all’altra, a titolo di caparra, una somma di danaro, o una quantità di altre cose fungibili, la caparra, in caso di adempimento, deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta. Se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente è, invece, la parte che l’ha ricevuta, l'altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra. Se però la parte che non è inadempiente preferisce domandare l’esecuzione o la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali”.
 
La funzione della caparra confirmatoria, quindi, è quella di tutelare le parti contraenti nel caso di inadempimento contrattuale e va distinta dalla caparra penitenziale disciplinata dall’articolo 1386 del codice civile, secondo cui “se nel contratto è stipulato il diritto di recesso per una o per entrambe le parti, la caparra ha la sola funzione di corrispettivo del recesso. In questo caso, il recedente perde la caparra data o deve restituire il doppio di quella che ha ricevuta”.
Entrambe le somme, avendo funzione risarcitoria del danno in caso di inadempimento ingiustificato ovvero di recesso di una delle parti e non costituendo, dunque, corrispettivo dell’operazione, non rientra nel campo di applicazione dell’Iva ai sensi degli articoli 2 e 3 del Dpr 633/1972.
 
Con specifico riferimento alla caparra confirmatoria, va rilevato che la stessa assume rilevanza ai fini Iva solo qualora, nel caso di adempimento del contratto, venga imputata in “conto prezzo”, trasformandosi, di fatto, in una parte del corrispettivo della cessione o prestazione. In tal caso, il venditore/prestatore emetterà la fattura riferita all’intero prezzo pattuito.
La caparra non ha rilevanza ai fini Iva nell’ipotesi in cui, a seguito dell’adempimento, le parti convengano per la restituzione della somma o se, a seguito dell’inadempimento del soggetto che l’ha pagata, la controparte esiga il doppio della stessa.
 
In considerazione del diverso trattamento ai fini Iva delle somme anticipatamente versate a seconda della qualificazione come caparra o acconto, è necessario che l’importo a titolo di caparra risulti da una specifica volontà delle parti o da un accordo formale, così come confermato dall’Agenzia delle Entrate nella circolare 18/2013 nella quale, sulla base della giurisprudenza di legittimità, è stato ribadito che: “la dazione anticipata di una somma di denaro, effettuata al momento della conclusione del contratto, costituisce caparra confirmatoria qualora risulti espressamente che le parti abbiano inteso attribuire al versamento anticipato non solo la funzione di anticipazione della prestazione, ma anche quello di rafforzamento e garanzia dell’esecuzione dell’obbligazione contrattuale”.
 
Per evitare contestazioni da parte degli uffici, è necessario che la qualificazione della somma quale caparra risulti da un atto scritto come, ad esempio, dal contratto di compravendita.
Ai fini delle imposte dirette, la ritenzione della caparra per inadempimento contrattuale di una delle parti riveste la natura di componente positivo di reddito. Infatti, avranno la medesima natura (ricavi derivanti dalla vendita o dalla prestazione non concretizzata e apparterranno alla medesima categoria reddituale) anche i proventi conseguiti in sostituzione degli stessi a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi (articolo 6, comma 2, del Tuir).
URL: https://www.fiscooggi.it/rubrica/giurisprudenza/articolo/compravendita-e-sfumata-lirpef-chiama-causa-caparra