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Giurisprudenza

Compensi superiori al reddito d’impresa?
Elemento presuntivo, grave e preciso

La mancata ragione della corresponsione di retribuzioni così elevate nei confronti degli amministratori della società è sufficiente a determinare la maggiore pretesa erariale

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È legittimo l’accertamento induttivo nei confronti della società che, in conseguenza dell’elevato ammontare del compenso deliberato a favore dei soci-amministratori, arrivi a dichiarare una percentuale di redditività esageratamente bassa rispetto a quella media di settore. L'Agenzia delle entrate, difatti, può legittimamene accertare in via analitica-induttiva il reddito quando, pur in presenza di una contabilità tenuta in modo formalmente regolare, l’ammontare dichiarato dalla società si discosti in maniera abnorme e irragionevole rispetto a quello della media del settore di appartenenza, tanto da rendere intrinsecamente inattendibile la stessa contabilità. Questo il principio affermato dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 23427 del 26 ottobre 2020.

Il fatto
La vicenda processuale ha origine dal ricorso proposto da una società in nome collettivo contro un avviso di accertamento, con cui l’Agenzia delle entrate aveva determinato un maggior reddito imponibile, perché quello dichiarato presentava una percentuale di ricarico di molto inferiore rispetto a quello delle società che operavano nello stesso settore economico e nel medesimo territorio e si discostava anche dal reddito determinato sulla base degli studi di settore.
La società ha contestato la pretesa erariale mettendo in dubbio la valenza presuntiva dello scostamento dalle medie di settore e rappresentando, inoltre, che la bassa redditività rilevata era da attribuirsi unicamente allo stanziamento in conto economico dei compensi agli amministratori, che costituiscono una forma indiretta di attribuzione del reddito di partecipazione ai soci.

La Ctp ha respinto il ricorso ma la decisione è stata riformata dalla Commissione tributaria regionale che, sulla base di un duplice ordine di ragioni, accoglieva le doglianze della società. I giudici hanno affermato che i valori percentuali medi del settore non possono considerarsi alla stregua di un "fatto noto" su cui basare una presunzione qualificata, essendo solo il risultato di una estrapolazione statistica che deve essere supportata da altre circostanze. Inoltre, come dedotto dalla società, i compensi ai soci amministratori che hanno causato la bassa redditività aziendale, potevano essere considerati come redditi ai soci, attribuiti in altra forma dal regime di "trasparenza" previsto dall'articolo 5 del Tuir.

L’Amministrazione finanziaria ha impugnato la decisione dinanzi ai giudici della Corte di cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione dell'articolo 39, comma 1, lettera d) Dpr n. 600/1973 perché la prova dell’esistenza di maggiori redditi rispetto a quelli dichiarati dalla società era stata offerta non solo sulla base delle medie di settore ma tenendo conto anche dei risultati di non coerenza e non congruità degli studi di settore.

La Corte di cassazione ha ritenuto fondata la tesi erariale e, accogliendone i motivi, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.

La decisione
Nella decisione in commento i giudici di legittimità hanno dibattuto ancora una volta sulla natura dell’accertamento di tipo analitico-induttivo previsto dall’articolo 39, comma 1 lettera d) del Dpr n.  600/1973, secondo cui l’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.
A riguardo il Collegio ha confermato la tesi erariale, sostenendo la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo anche con l'utilizzo delle medie di settore e pur in presenza di una contabilità regolarmente tenuta, quando la difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente rispetto a quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza assume livelli di “abnormità ed irragionevolezza”. Tale principio è confermato dalla circostanza che l’irragionevolezza dello scostamento deriva dall’attribuzione in misura abnorme di compensi ai soci-amministratori, di importo addirittura superiore all’entità del reddito dichiarato dalla società erogante.

In tema di accertamento la Corte di cassazione ha ribadito il principio per cui, pur in presenza di una contabilità regolare, “l'accertamento dei maggiori ricavi d'impresa può essere affidata alla considerazione della difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente, rispetto a quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, solo quando raggiunga livelli di "abnormità" ed "irragionevolezza" tali da privare la documentazione contabile di ogni attendibilità, concretando diversamente tale difformità un mero indizio”.

L’intrinseca inattendibilità della contabilità aziendale deriva in buona sostanza dall’antieconomicità del comportamento del contribuente, desumibile anche da un solo elemento presuntivo qualificato, quale lo scostamento abnorme e irragionevole dalle medie di settore.

Nel caso di specie l’Amministrazione finanziaria ha correttamente ritenuto grave e preciso l’elemento presuntivo dello scostamento dalla redditività media riscontrata nel settore di appartenenza della società controllata, che ha deliberato in favore degli amministratori compensi superiori ai redditi stessi dell’impresa, non allegando “la ragione di tale importo dei compensi agli amministratori in una società di persone, che non può certo sostituire l'imputazione per trasparenza degli utili ai sensi dell'art. 5 del d.p.r. 917/1986.
 

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