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Giurisprudenza

Il commercialista “sciatto” può
risarcire anche le imposte accertate

Deve essere valutato il nesso di causalità giuridica tra l'inadempimento del professionista ai suoi obblighi e gli importi in concreto pagati dal contribuente in seguito all'accertamento fiscale

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Il contribuente può chiedere, in via civilistica, il risarcimento al proprio professionista per il danno subito, non solo in riferimento alle sanzioni conseguenti all'accertamento fiscale, ma anche in riferimento a quanto dovuto a titolo di tributi.

La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 22855 del 20 ottobre 2020, ha affermato un principio molto rilevante in tema di responsabilità risarcitorie del professionista negligente nei confronti del contribuente che abbia subito un accertamento proprio a causa delle sue mancanze.
Nel caso in esame, una società aveva agito in giudizio nei confronti del commercialista, per ottenere il risarcimento dei danni che assumeva di avere subito in conseguenza del negligente svolgimento della prestazione professionale da questi dovuta, relativa alla tenuta della contabilità sociale, nonché alla redazione di bilanci e dichiarazioni dei redditi della società.
 
La domanda era stata rigettata dal tribunale e la Corte di appello, in riforma della decisione di primo grado, aveva invece parzialmente accolto la domanda, condannando il professionista al pagamento dell'importo di 22.994,50 euro, oltre che degli accessori, in favore della società, e la compagnia assicurativa, che il professionista aveva chiamato in causa, a tenerlo indenne di quanto pagato in dipendenza della decisione stessa.
La Corte di appello riteneva che le sentenze delle commissioni tributarie, riguardanti l'accertamento fiscale operato nei confronti della società ricorrente, costituissero sufficiente prova dell'inadempimento del commercialista, laddove però tale inadempimento comportava a suo avviso il ristoro delle sole sanzioni, nella misura sopra indicata.
La società proponeva quindi ricorso per cassazione, deducendo l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio.

I giudici di legittimità, nel ritenere il ricorso fondato, rilevavano che la questione della sussistenza della responsabilità professionale non era più in discussione, controvertendosi esclusivamente dell'importo del risarcimento dovuto dallo stesso professionista, laddove alla società committente era stato riconosciuto, a titolo di risarcimento del danno subito, esclusivamente l'importo delle sanzioni conseguenti all'accertamento fiscale, e non invece quello dovuto a titolo di tributi, avendo ritenuto la Corte d’appello quest'ultimo comunque a carico della stessa contribuente.

La società, osservava poi la Corte, nell'impugnare la decisione di primo grado con cui era stata integralmente rigettata la sua domanda, aveva peraltro specificamente dedotto che la responsabilità del professionista, consistente nella non corretta tenuta della contabilità sociale, aveva determinato non solo le sanzioni, ma anche la necessità di pagare le maggiori imposte contestate, laddove il maggior importo richiesto a tale titolo dal fisco era dovuto proprio alla non corretta tenuta della suddetta contabilità.
La stessa società rilevava, inoltre, che era errato anche il computo delle sanzioni, avendo essa pagato, a tale titolo, l'importo di 62.213,00 euro e non quello di 22.994,50, riferendosi tale ultima somma, in realtà, alla misura del 25% delle sanzioni originariamente richieste con l'avviso di accertamento, e cioè all'importo che poteva essere pagato immediatamente in misura ridotta, facoltà di cui però la società pacificamente non si era avvalsa.

Tanto premesso, secondo la Cassazione, i fatti indicati erano certamente decisivi in relazione all'importo dovuto a titolo di risarcimento dal professionista, non avendo il giudice di appello adeguatamente motivato il perché si potesse riconoscere alla società, a titolo di risarcimento, esclusivamente l'importo relativo alle sanzioni, indicando peraltro tale importo in misura notevolmente inferiore a quella effettivamente pagata, sul generico assunto che i tributi sarebbero stati in ogni caso a carico del contribuente.
La Cassazione affermava, in conclusione, che la Corte di appello, in sede di rinvio, avrebbe dovuto provvedere a valutare nuovamente la fattispecie sotto il profilo della determinazione del danno subito dalla società per l'inadempimento del professionista alle sue specifiche obbligazioni, prendendo in esame le indicate circostanze di fatto e dovendo, in particolare, valutare il nesso di causalità giuridica tra l'inadempimento del medesimo professionista ai suoi obblighi e gli importi in concreto pagati dalla società committente in seguito all'accertamento fiscale per cui era causa.
Il giudice di merito avrebbe quindi dovuto accertare se, nella specie, fosse o meno imputabile al professionista, quale inesatto adempimento della prestazione professionale dovuta, la mancata indicazione alla società di quale documentazione avrebbe dovuto allegare alle dichiarazioni fiscali ai fini della deducibilità dei costi di pubblicità, propaganda e rappresentanza, nonché se fosse allo stesso anche imputabile la mancata corretta redazione del quadro EC della dichiarazione dei redditi, che aveva determinato l'impossibilità di dedurre gli ammortamenti anticipati.

Tanto premesso in ordine allo specifico caso processuale, non bisogna comunque confondere il lato risarcitorio civilistico con quello prettamente tributario o penale.
Come affermato, infatti, dalla Cassazione con l’ordinanza n. 17346/2020, il contribuente non assolve agli obblighi tributari con il mero affidamento a un commercialista del mandato a trasmettere in via telematica la dichiarazione alla competente Agenzia delle entrate, essendo tenuto a vigilare affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto. La sua responsabilità (sanzionatoria) è esclusa del resto, dice la Corte, solo in caso di comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento. 
In sede penale, poi, come affermato anche dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 9417/2020, il Dlgs. n. 74/2000, all’articolo 5, punisce la mancata presentazione della dichiarazione da parte dei soggetti a questa tenuti, trattandosi di reato omissivo proprio, ed essendo soggetti attivi del reato coloro che sono obbligati alla presentazione delle dichiarazioni annuali previste dalla disposizione (cfr Cassazione, nn. 9163/2009 e. 37856/2015).
In tale ambito, rilevano i giudici di legittimità, è stato peraltro chiarito che, trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale e non delegabile il relativo dovere e si è escluso che l'eventuale delega possa modificare il destinatario dell'obbligo, titolare della posizione di garanzia, il quale, in ossequio ai criteri di tassatività e di legalità, continua a coincidere con il soggetto individuato dalla legge (cfr Cassazione, n. 9163/2009).
Colui che abbia affidato al commercialista, ovvero a un consulente fiscale, l'incarico di compilare la dichiarazione, non può dirsi, pertanto, per ciò stesso, esonerato da responsabilità.
Pertanto, il contribuente, se vuole essere esentato da responsabilità (solo comunque sanzionatorie) in caso di omessa trasmissione della dichiarazione da parte del professionista abilitato, deve dimostrare di aver fornito al medesimo professionista, poi denunciato all'autorità giudiziaria, la provvista di quanto dovuto all'Erario e di avere vigilato sul puntuale adempimento del mandato, dimostrando l'assenza di colpa in vigilando, nel concreto superabile, come detto, soltanto a fronte di un comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento (cfr Cassazione ordinanza n. 4383/2019).

Sotto il profilo del pagamento dell’imposta, poi, l'infedeltà dell'intermediario, che, incaricato del pagamento e della trasmissione della dichiarazione, ometta di provvedervi, quand'anche accertata in sede penale, non esonera comunque il contribuente dal pagamento del tributo (cfr Cassazione ordinanza n. 24307/2018), dato che il rapporto tributario è appunto esclusivo tra fisco e contribuente.

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