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Dal mondo

Usa: il federalismo fiscale,
un modello ma anche un monito

Lo studio degli effetti che la “Grande crisi” ebbe nel riscrivere il sistema è al centro di analisi interne e non

federalismo usa
Gli Stati Uniti sono il prototipo vincente su cui elaborare, o ridisegnare, una governance alternativa, finalmente capace di accompagnare il modello tradizionale dello Stato-Nazione, oramai usurato dai tempi, oltre la crisi. Non c’è Paese, capitale che non guardi oggi oltre-atlantico alla ricerca di soluzioni e di risposte istituzionali concrete agli squilibri presenti. “Federalismo fiscale”, soggetto più attributo, è la coppia che occupa le classifiche dell’appeal internazionale in materia di riforme. In questo clima, piuttosto uniforme, il monito dei Think Tank statunitensi, cioè dei maggiori centri di ricerca del Pianeta, e degli stessi uffici economici della Casa Bianca, è arrivato assordante nelle cancellerie europee. La questione è quella della “Grande Depressione”, un’epoca, quella vissuta a cavallo tra il 1929 e il 1938 protrattasi fino all’entrata in guerra nel 1941, che ha segnato la storia degli Stati Uniti. Un periodo di sfiducia, contrazione e stagnazione che ha contribuito a rimodulare i poteri interni, le relazioni tra le diverse autorità e la ridistribuzione delle tasse, delle imposte e di ogni balzello, sia pur minimo, che ancor oggi è ospitato e ben incastrato nel sistema-Paese con lo sguardo rivolto verso Washington.
 
 
grafico su federalismo e spese
 
 
*Nel grafico sono riportate le spese pubbliche Usa, nel periodo 1926-1932, cioè ante-Crisi, e nel periodo 1938-43, post-Crisi, effettuate, in ordine, dai singoli Stati, dal Governo federale e dalle contee e dagli enti locali
 I valori sono espressi in percentuale)
(Fonte: Centro Nazionale Ricerche Usa)
 
 
La metamorfosi del fisco Usa, dall’imposta sulla proprietà ai Bond – Lo studio delle dinamiche e degli effetti che la Grande Depressione ebbe nel riscrivere il modello federale statunitense è oggi largamente dibattuto, non soltanto a Washington. In pratica, il dato che emerge dagli approfondimenti condotti in questi mesi rivela un concreto squilibrio che, fino al 1932, condizionò il divenire e il farsi della Crisi nelle sue fasi più acute. Infatti, approfondendo i dati, oggi disponibili, emerge un forte espansionismo finanziario, e di spesa, delle contee e degli enti locali. Tra il 1920 e il 1930 migliaia di autorità locali avviarono un programma quasi illimitato di investimenti e di ridistribuzione di capitali, sia sull’economia locale sia sul territorio. Questa politica finanziaria, oltre a essere economica, fu governata e orientata direttamente dagli enti locali, senza mediazioni federali. Lo strumento utilizzato fu uno solo, invariabilmente: porre sul mercato una quantità di titoli obbligazionari, cioè Bond, e di strumenti azionari senza precedenti. La leva monetaria messa in campo dalle autorità locali per autofinanziarsi fu l’imposta sulla proprietà che, nel decennio antecedente la Crisi, assunse il profilo d’imposta statale doc. Il passo, troppo lungo, che portò le contee e i governi locali dal fisco all’emissione di migliaia di Bond segnò, in via definitiva, il crollo del sistema dell’intero Paese, aprendo le porte alla Grande Depressione. Infatti, il ripiegarsi del mercato e gli squilibri crescenti derivanti dall’economia reale, decisamente distante dall’immagine finanziaria su cui si fondava, diedero il via alla fase d’innesco d’un effetto domino che, in un solo triennio, determinò il manifestarsi della “Grande Depressione” in tutte le sue forme. Dunque, se la crisi finale era stata originata da inconcludenze, incapacità di gestione e ingovernabilità esplicita delle autorità locali e decentrate, la soluzione che Washington adottò fu uniforme: potenziare l’aspetto centralistico del federalismo originario e riformare il rapporto tra fisco e livelli diversi di governance in favore delle autorità federali direttamente dipendenti da Washington. Il risultato fu il tramonto della supremazia decentrata sostituita da un nuovo, moderno centralismo.
 
Federalismo fiscale, cioè Grande Depressione? – Naturalmente, associare le Crisi in generale all’adesione e adozione del federalismo fiscale è eccessivo. Senza dubbio però, l’esperienza statunitense della Grande Depressione è direttamente connessa al crac del sistema fiscale interno degli Usa e della governance eccessivamente sbilanciata sul decentramento dei poteri, non soltanto amministrativi. Un eccesso di federalismo quindi che venne, in pochi anni, riequilibrato. Per comprendere l’entità del ridimensionamento è sufficiente scorrere i dati statistici relativi alle spese e, a loro volta, riferibili all’ampiezza di poteri e funzioni esercitate su tre distinti livelli: federale, statuale e relativo alle contee e all’elenco infinito dei diversi poteri locali.
 
Contee senza tesoro - Nel dettaglio, mentre nel periodo ante-crisi le autorità locali erogavano il 50per cento dei fondi, gli Stati il 20per cento e Washington il 30per cento, nella fase successiva al periodo più critico, dal 1938 in avanti, le risorse gestite a livello locale erano scese al 30per cento, mentre i fondi degli Stati e nella disponibilità federale erano rispettivamente saliti al 24per cento e al 50per cento. In pratica, è questo il momento storico decisivo in cui Gli Usa si dotano d’una governance non soltanto istituzionale ma fiscale che guiderà il Paese nei decenni futuri e che, ancor oggi, è ben visibile. Naturalmente, l’effetto più visibile si ripercosse sui servizi che, un tempo gestiti soltanto dalle contee, si ridefinirono sotto il controllo e l’organizzazione diretta di Washington. 
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