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Dal mondo

Usa, bocciato il Tax Holiday
del fisco sui profitti rimpatriati

Il supersconto fiscale per i miliardi di fonte estera ricondotti entro i confini statunitensi stenta a decollare

congresso usa

Non decolla il varo della norma, attesa da centinaia di multinazionali, sul super-sconto fiscale per i miliardi di fonte estera ricondotti entro i confini statunitensi. Sostenuta inizialmente sia dai Repubblicani che dai Democratici, questa misura è stata letteralmente rinviata al mittente da due studi realizzati il primo dallo stesso Congresso Usa, il secondo da uno tra i più prestigiosi think tank liberisti, la Heritage Foundation. In pratica, i due elaborati sono pervenuti alla medesima conclusione, pur muovendo da due assunti differenti. In sintesi, i profitti rimpatriati che beneficiano di sconti fiscali non spingono affatto le multinazionali a spalancare le porte dei loro stabilimenti a nuove assunzioni. Al contrario, ciò che le ha contraddistinte in passato è un maggiore ricorso ai licenziamenti, e questo nel corso del biennio 2004-2006, periodo antecedente la crisi attuale.
 

Cosa prevedeva la norma - La misura allo studio sul rimpatrio dei profitti esteri contemplava una riduzione significativa dell'aliquota base destinata a scendere al 15 o al 5 per cento rispetto al 35 per cento ordinario. Peraltro, uno studio condotto dagli uffici del Congresso, ha rivelato che una norma simile, che risale al 2004, determinò un rientro di 300 miliardi di dollari ai quali corrisposero ben 67mila licenziamenti da parte delle maggiori multinazionali beneficiate. Nel complesso più di 100mila lavoratori persero il posto, mentre il denaro rimpatriato venne nuovamente condotto all'estero l'anno successivo. Insomma, un fallimento.
 

Le conclusioni della Heritage Foundation - Sul versante opposto rispetto a quello del Congresso, la Heritage Foundation ha rilevato il medesimo dato negativo. Il fattore però che distingue i due centri di ricerca è che mentre il primo, interno al Congresso, non pone in evidenza misure alternative o eventuali modifiche alla norma per renderla più efficace, il secondo ipotizza due cambiamenti sostanziali da abbinare alla misura ancora in discussione. Innanzitutto, nei due anni successivi al rientro dei profitti, le multinazionali che autorizzano dei licenziamenti saranno sottoposte al pagamento di sanzioni i cui importi saranno molto salati. La seconda modifica da affiancare al corpo normativo riguarda invece il principio della territorialità della tassazione. Ciò comporterebbe la tassazione dei profitti nel Paese dove risultano effettivamente conseguiti, escludendo un qualunque esborso aggiuntivo in caso di rimpatrio. Una variante questa che difficilmente potrà essere accolta dal legislatore sia in considerazione dell'attuale periodo di crisi sia per l'assenza, in Congresso, d'un numero sufficiente di parlamentari pronti a sostenerla.
 

La terza voce - E per finire, oltre al Congresso e alla Heritage Foundation, è corretto aggiungere in chiusura la voce d'un altro centro di ricerca in crescita nella classifica del prestigio, l'Institute for Policy Studies. La linea di questo istituto è riassumibile in due conclusioni: le multinazionali che aderiscono al rientro dei profitti sfruttando il Tax Holiday non assumono ma licenziano, mentre i profitti rimpatriati rimangono negli Usa soltanto temporaneamente poiché, in mancanza di strumenti d'investimento adeguati, finiscono per terminare la loro corsa di nuovo all'estero. Dunque, è la mancanza di opportunità d'investire in patria che spinge ogni anno oltre 1000 miliardi di dollari di profitti delle grandi imprese a fuggire all'estero, in cerca di minori imposte e avendo come obiettivo reale spesso soltanto quello del risparmio fiscale. La denuncia riguarda quindi una sorta d'inerzia del Congresso e dei Governi Usa nel varare strumenti e opportunità utili per veicolare gli investimenti sul mercato interno.


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