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Dal mondo

Ocse, monete virtuali e cripto-patrimoni.
Una panoramica su oltre 50 giurisdizioni

La capitalizzazione del settore ha raggiunto quota 390 miliardi di dollari a ottobre 2020

Come considerare la ricchezza prodotta dai bitcoin e dalle monete “native digitali”? Come etichettare e tassare gli spostamenti di cripto-patrimoni sul web? Che rischi possono derivare da questo ramo del mercato finanziario? Il tema non è nuovo, ma stavolta è l’Ocse a tirare le fila del dibattito, con lo scopo di coinvolgere e dare supporto a tutta la comunità internazionale. Il rapporto Taxing Virtual Currencies punta proprio a questo. Del resto, su questa tematica gli Stati si sono mossi finora per lo più in ordine sparso (quando si sono mossi) e sono pochi gli approcci coordinati (vedi l’articolo Il J5 compie due anni. Nel mirino criptovalute sospette e frodi). 
Il rapporto sulla tassazione delle valute virtuali è stato redatto grazie al contributo di oltre 50 giurisdizioni. Vista una partecipazione così ampia, che coinvolge un nutrito gruppo di Paesi, per l’Ocse questa è la prima vera analisi sovranazionale degli approcci impositivi (all’interno dei tre macro settori delle imposte sul reddito, sui consumi e sulla proprietà) che sono stati introdotti ai vari angoli del globo nell’ambito di bitcoin e cripto-patrimoni.

La velocità del cambiamento
Nella fase attuale i patrimoni virtuali sono in rapida e continua evoluzione. Superata la fase della novità e dell’assestamento, però, i responsabili delle politiche fiscali dei vari Stati non hanno ancora definito una strada condivisa su come affrontare il tema.  Nel rapporto, l’Ocse avverte che le implicazioni relative all'evasione fiscale sono state in gran parte inesplorate, sebbene costituiscano un aspetto importante della questione a livello normativo. Per l’Organizzazione con sede a Parigi, insomma, è ora di affrontare questa e le altre lacune normative presenti in molti Paesi.
La velocità riguarda anche il valore di mercato delle “valute virtuali”. Parliamo quindi del valore prodotto da queste attività finanziarie. Per la Banca d’Italia (vedi l’approfondimento disponibile sul web Aspetti economici e regolamentari delle «cripto-attività»), la stima della capitalizzazione globale di questo mercato era pari a 130 miliardi di dollari ai primi di marzo 2019, mentre superava la somma di 830 miliardi di dollari a inizio 2018. I dati citati dall’Ocse nel rapporto, più aggiornati, sono una prova della volatilità di questo settore. Nel mese di ottobre 2020, infatti, la capitalizzazione di mercato complessiva delle valute virtuali era valutata pari a 390 miliardi di dollari, con una stima di più di 10 milioni di transazioni giornaliere realizzate tra gli operatori. Per l’Ocse, le valute virtuali devono inoltre affrontare un'altra volatilità elevata (quella dei prezzi) che può causare guadagni (o perdite) significativi.

I differenti approcci nazionali
Prima di passare alla parte comparativa del report Taxing Virtual Currencies, bisogna chiarire le motivazioni che hanno portato alla stesura di questo studio dell’Ocse. Investire in valute virtuali, è la premessa degli autori del volume, genera valore e rappresenta una base imponibile potenzialmente rilevante che dovrebbe essere presa in considerazione da tutti gli Stati. Una volta superato questo primo step, gli stessi Stati potranno decidere in che misura (e attraverso quali meccanismi impositivi) tassare questa base imponibile. Il report Taxing Virtual Currencies nasce proprio per dare un contributo ai decision maker degli Stati membri e del G20, in modo da aiutarli a determinare il trattamento fiscale appropriato da stabilire nei confronti delle valute virtuali.
Come di consueto, quindi, l’Organizzazione internazionale prende le mosse da una analisi comparativa degli approcci dei Paesi coinvolti nella realizzazione del volume.

Punti chiave e conclusioni
I risultati principali dello studio delle norme che regolano le transazioni in monete virtuali contengono molti spunti di riflessione.
Innanzitutto, dal punto di vista delle imposte sul reddito, la maggior parte degli Stati considera le valute digitali come beni immateriali. I redditi derivanti dall’attività di mining e dagli scambi sul mercato (tra monete virtuali oppure tra valuta virtuale e beni e servizi) sono tassati come plusvalenze oppure redditi di capitale.
Per una minoranza di Paesi è valida una distinzione tra attività professionali o di impresa e attività occasionali. Per queste giurisdizioni, la conseguenza della distinzione è che i ricavi della prima categoria sono tassati come reddito, mentre nel secondo caso si tassano quelle che vengono classificate come plusvalenze. Ancora, la maggior parte dei Paesi considera tutte le forme di scambio di valuta virtuale in grado di generare base imponibile. Una porzione ridotta di Stati esenta gli scambi tra diversi tipi di valuta virtuale e pochi altri non considera imponibili le transazioni in moneta virtuale.
Dal punto di vista delle imposte indirette, infine, quasi la totalità degli Stati considera le attività coinvolgenti le valute virtuali come esenti o non imponibili. È questo il caso del regime Iva in vigore nell’'Unione europea, in seguito alla decisione del 2015 della Corte di Giustizia. All’epoca, infatti, la Corte aveva chiarito che gli scambi di bitcoin son esenti ai sensi della Direttiva Iva.



 

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