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Dal mondo

Irlanda: per l'imposta sui profitti c'è chi dice no e...sì

Washington e Londra propense a mantenere il taglio dell'Ires "made in Ireland", Berlino è contraria

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Berlino preme su quel 12,5%, l'aliquota sui profitti delle società, che contraddistingue, da anni, l'Irlanda, invocando a gran voce il suo trasloco verso un piano rialzato. Sul versante opposto, invece, sia Washington che Londra, ma in ordine sparso, esercitano pressioni contrarie. La voce che si oppone con maggior incisività al rovesciamento del regime fiscale irlandese proviene dal business statunitense.

Dalla Corporate America il rompete le righe sul 12,5 per cento - Approfondire le ragioni che spingono le multinazionali Usa, in questi giorni, ad agitare il rompete le righe e a difendere, con passione, la soglia del 12,5% impone di passare in rassegna alcune tavole statistiche relative alle componenti dell'economia e del mercato che fanno perno su Dublino.

Usa&Irlanda, i numeri delle relazioni pericolose - Le società che operano in Irlanda danno lavoro, in via diretta, a circa 100mila cittadini irlandesi. Questo implica un flusso continuo e ben strutturato d'investimenti, cioè di miliardi, spese e, in particolare, salari e stipendi, in una fase, quella vissuta oggi dal Paese, che si distingue per l'assenza di sicurezza proprio in merito alla parola lavoro. A seguire, in ordine, ben si comprende quindi su quali basi, contabili e nient'affatto astratte, oltre 1/5 del valore aggiunto irlandese, cioè del Pil, esibisca con soddisfazione il copyright made in Usa. Un dato questo che spiega anche il ruolo significativo che le imposte e le tasse, comunque versate annualmente da centinaia di controllate statunitensi nelle casse del fisco irlandese, rivestono in riferimento alla tenuta dei conti pubblici irlandesi, cioè sul versante delle entrate. Naturalmente non è soltanto una questione di gettito. Grazie, infatti, alla stratificazione della Corporate America entro i confini dell'ex-tigre celtica, ogni anno ben 30 miliardi di dollari di beni, prodotti e componentistica, realizzati in Irlanda lasciano il mercato domestico per rovesciarsi sul mercato statunitense. Niente male per un Paese in cui risiedono 4 milioni di abitanti non 40 milioni.

La Corporate America che ha scelto Dublino - Modificando il punto d'osservazione e trasferendolo dai conti nazionali irlandesi ai bilanci delle multinazionali statunitensi, la questione si chiarisce con maggiore nitidezza, sempre contabile. Tra i dati più recenti diffusi dall'Agenzia delle Entrate di Washington, infatti, risulta che sono quasi 700 le grandi multinazionali Usa, cioè con un giro d'affari superiore ai 500 milioni di dollari, che operano in Irlanda. E a queste fanno riferimento ben 1.200 società estere controllate che, a conti fatti, costituiscono la filiera strategica con cui la Corporate Usa ha occupato i nodi decisivi del mercato domestico irlandese. Si tratta, quindi, d'un gioco che non è a somma zero, anzi, l'esatto contrario. Le controllate statunitensi, in definitiva, gestiscono dei patrimoni, tangibili e intangibili, che nel periodo ante-crisi erano pari a circa 500 miliardi di dollari, con cui assicuravano, ogni anno, alle loro controllanti, radicate negli States, profitti netti pari a 30 miliardi di dollari. Insomma, davvero difficile sciogliere il nesso tra Usa e Irlanda, a oggi, alla luce di questi numeri.

Dublino non è sola - In ogni caso vale la pena sottolineare che non esiste una solitudine del 12,5% irlandese. In Europa, infatti, è sufficiente spostarsi a Cipro o in Bulgaria per imbattersi in aliquote sui profitti ancor più generose, 10%. Cambiano i fattori che assicurano un elevato tasso di redditività sull'investimento, difficili da raffrontare con il capitale umano, soprattutto, e sul know how, che Dublino ancora è in grado d'offrire all'investitore estero.

 

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